domenica 10 ottobre 2010

Step Up 3D


Dopo i cartoni animati, i film fantasy, i cine-comics o le produzioni spettacolari, l’insostenibile mania del 3D colpisce anche i film di danza: a farne le spese sono il film Step Up e il regista Jon Chu che, per il terzo episodio delle imprese danzerecce tra hip-hop e street-dance, si affidano a New York City e all’impianto stereografico. Con risultati in un certo senso sorprendenti.
Moose è un ballerino che ha lasciato la danza per iscriversi a ingegneria con la sua migliore amica: ma il richiamo del ballo è troppo forte e l’incontro con Luke e i Pirati lo porterà nello stordente mondo delle sfide a colpi di danza e hip-hop. Un film di arti marziali con il ballo al posto del kung-fu, scritto da Amy Andelson ed Emily Meyer, che supplisce a ogni possibile debolezza con la forza delle sue coreografie e la ricerca visuale. Il vero pregio del film è di mettere da parte il più possibile le tirate patetiche di film simili, con genitori morti, malattie e sogni impossibili che hanno un ruolo marginale, e per di più pretestuoso, per puntare tutto sulle coreografie, le scene di ballo, le trovate scenografiche e visive: Chu fa così un film in un certo senso astratto, in cui gli scontri tra le “gangs di New York” non avvengono a colpi di coltello e bastone ma di salti e acrobazie e la risoluzione finale s’illumina di neon e raggi laser.
La sceneggiatura è praticamente inesistente (come in molti film di arti marziali) e situazioni e dialoghi sembrano pronti per una parodia (dal titolo del film nel film “Figli delle radiolone”), ma ciò che davvero conta è il lavoro di Chu, Adam Shankman (produttore) e un gruppo di cinque coreografi capaci di reinventare spazi e angoli grazie anche a un uso accorto del 3D. E’ un film trascurabile e banale, che però sa ciò che deve fare e sa farlo, arrivando al nocciolo di quello che potrebbe essere un musical contemporaneo e urbano. Con in più l’aggiunta (e il sovrapprezzo) di un buon effetto tridimensionale.

Voto: 6

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