martedì 19 ottobre 2010

Colonna sonora di Flight of the Conchords

Facciamo compagnia all'amico e collega Erminio Fischetti e parliamo di serie tv, ovviamente dal punto di vista musicale. Ha esordito in questi giorni su MTV Flight of the Conchords, show genialoide e bizzarro con al centro una band musicale, quella che dà il titolo alla serie: la particolarità è che questa band esiste davvero e fa dell'ottima e spassosissima musica.
I Flight of the Conchords sono un duo neozelandese, "il quarto più popolare duo di chitarristi-digi-bongo a cappella-rap-funk-folk comico della Nuova Zelanda", che in America cerca di raggiungere il successo attraverso espedienti più o meno fortunati. Ovviamente le conseguenze comiche di questi espedienti sono irresistibili, venate dell'humour alternativo e indipendente che dagli anni '90 è giunto fino al Saturday Night Live, ma soprattutto il cuore comico e narrativo della serie è nella musica.
Infatti, le canzoni di Bret MacKenzie e Jemaine Clement – i componenti del duo – sono la spina dorsale su cui fondano i racconti e le situazioni buffe della serie e anzi, è sui brani dei loro due album che si struttura la serie: e sono canzoni a tratti folgoranti, folk melodico, chitarre acustiche e voci dolci che si sanno aprire al funk o all'easy listening nero per arrivare a deliranti parentesi elettroniche in cui si citano i Kraftwerk. E che sanno dare alla paradossale forma linguistica dei testi (facendo con più finezza ciò che fanno anche gli italici Latte e i suoi derivati) una forza comica e intellettuale notevole.
Davvero musica da vedere, per usare una vieta sinestesia (vera, visto che non hanno dato l'ok alla terza stagione perché non sarebbero riusciti a scrivere in tempo le canzoni), dove le forme linguistiche della canzone e della tv, unite dal gusto infinito del paradosso, danno forma a una delle rivelazioni della tv americana (HBO) degli ultimi anni.

lunedì 18 ottobre 2010

Figli delle stelle

La commedia italiana, come dimostra l'incredibile successo di Benvenuti al sud di Miniero, potrebbe essere il punto di partenza per il rilancio dell'industria cinematografica nazionale e per dare spunti per una nuova politica produttiva. Un parco attori/divi da poter spendere, la possibilità di coniugare realtà e gusti del pubblico, anche una questione di DNA artistico e culturale italico. E' per questo che dal nuovo film di Lucio Pellegrini ci si aspettava qualcosa di meglio.
La storia è quella di un gruppo di precari ideologicamente attivissimi che, per disperazione e ripicca dopo una morte sul lavoro, decide di rapire il ministro: ma essendo sfigati e incompetenti rapiscono un sottosegretario. E ora devono risolvere il problema. Il regista col fratello Michele e e Francesco Cenni scrive una specie di parodia di Buongiorno notte di Bellocchio che vorrebbe percorrere le strade della commedia dalle venature nere e politiche, ma si arena nell'inadeguatezza della sua realizzazione.
Il film infatti entra all'inizio a gamba tesa sulla realtà, raccontando di precari, di poveri, di operai che muoiono per le troppe inadeguatezze del sistema, ma anche dei limiti della politica e delle ideologia, fermandosi però alle premesse e preferendo restare nel limbo della commedia di basso profilo, fatta di macchiette, dialetti da ogni parte d'Italia, superficialità politiche e musiche didascaliche (il Va' pensiero di Verdi); e così un film malinconico sul riscatto dei perdenti, sulla cialtroneria insita nel sistema italiano e sull'azione collettiva contro i cascami del potere diventa una facile presa in giro del nuovo comunismo, dell'ingenua buona fede con annessa dimostrazione che non esistono cattivi, ma solo buoni fraintesi.
A dominare la sceneggiatura, più che il qualunquismo, però c'è il dilettantismo di costruzione che dimentica per strada per gran parte del film un personaggio - comunque inutile - come quello di Fabio Volo e si affida alla struttura movimentata per coprirne le falle; alle quali Pellegrini non fa molta attenzione, preoccupato solo di dirigere gli attori, dai protagonisti ai secondari, come enormi macchiette regionali (che il pubblico si conquisti puntando solo ai regionalismi?). E' un peccato, perché il finale raggiunge il tono crepuscolare che ci voleva e avrebbe dato più spessore alle prove di Pierfrancesco Favino – che parla ciociaro – e Claudia Pandolfi. Mentre Giuseppe Battiston e Paolo Sassanelli sono attori e caratteristi di razza, e il loro dovere lo sanno fare sempre e comunque.

Voto: 5

domenica 17 ottobre 2010

Buried


A creare attesa e scalpore attorno a un film ci possono essere i nomi imponenti del regista o degli attori, una fonte letteraria di prestigio, ma anche la semplice idea di partenza. Per esempio un luogo in cui chiudere l'intera pellicola: Hitchcock lo fece con la stanza nella Finestra sul cortile, o con l'appartamento in piano sequenza di Nodo alla gola, oppure – scendendo più giù – la cabina telefonica di In linea con l'assassino di Schumacher.
Oppure una bara, luogo sinistro in cui Rodrigo Cortès (al secondo lungometraggio) chiude Ryan Reynolds dotandolo di un cellulare e di un accendino: con questi due elementi dovrà mantenersi vivo e cercare di farsi liberare. E tangenzialmente, anche capire chi l'ha messo li e perché. Sfida tecnica e narrativa raccolta da Cortès e dallo sceneggiatore Chris Sparling per mettere su un thriller tesissimo e paradossalmente fantasioso.
A partire dai titoli di testa ispirati a quelli di Bass per Hitchcock, con le musiche di Victor Reyes a orecchiare, il regista non cerca una riflessione filmica sull'immobilità e la claustrofobia (com'era la sequenza di Kill Bill 2) e solo in parte allarga la discussione alla guerra e alla ricostruzione americana in Iraq: Buried è un film di puro meccanismo, che funziona solo con forti dosi di sospensione d'incredulità, ma che dal mero punto di vista della suspense non perde un colpo.
La sceneggiatura è abile nel far ripartire la tensione e nel non bloccare mai l'intreccio (fino al finale, a suo modo disperato) e Cortès ci mette un eclettismo tecnico fatto di zoom, carrelli e panoramiche che crea uno spazio virtuale dove manca quello fisico (qualcuno potrebbe dire che questo è il cinema) anche a costo di limitare la reazione fisica dello spettatore. Che magari non s'immedesima del tutto in Reynolds – anche a causa di qualche frecciata satirica – ma che si gode un bello spettacolo di genere.

Voto: 7

venerdì 15 ottobre 2010

L'estate d'inverno

Ancora storia di cattiva distribuzione italiana: girato nel 2007, presentato al festival di Roma del 2008 e uscito solo il 15 ottobre 2010, l'esordio nel lungometraggio di Davide Sibaldi arriva sul grande schermo grazie all'interessamento del benemerito Christian Lelli di Iris Film. Che produttivamente va sul sicuro con un film girato con due soli personaggi in una stanza. A di un surplus di artificio.
Un ragazzo dopo un rapporto con una prostituta del doppio dei suoi anni le chiede di restare un'altra ora a parlare: nonostante la ritrosia di lei, i due tireranno fuori i loro demoni, gli abbandoni subiti e quelli effettuati. Uno psico-dramma da camera che Sibaldi ha scritto ispirandosi chiaramente al Dreyer di Due esseri e a Bergman, ma che non riesce ad andare più in là di un comune adattamento teatrale appesantito da troppe parole a vuoto.
Il cuore del film – sbandierato ogni 2-3 minuti e ribadito pesantemente in conferenza stampa – è riflettere su cosa accade agli esseri umani quando vengono abbandonati, le reazioni, le deviazioni psicologiche, i traumi non risolti e che il dialogo e il confronto possono aprire come squarci, e forse risolvere; il vero problema del film di Sibaldi non è nell'impianto di base, ma soprattutto nella difficoltà di rendere vere le emozioni e le sensazioni così apertamente messe in scena, un po' perché la realizzazione si perde nei fronzoli, un po' perché il cuore del film è debole.
E la colpa è in sostanza di una sceneggiatura che usa dialoghi ridondanti, della falsa letteratura delle parole che si adagia su escamotages come i lapsus “freudiani” e di una regia che eccede in riprese estemporanee e vuote (la città, l'albergo) e in un montaggio per-cinetico che tradisce una sfiducia negli attori. Giustamente: Fausto Cabra è davvero pessimo nonostante ogni sforzo, mentre Pia Lanciotti, molto migliore, si lascia andare a troppo birignao. E quando non c'è altra via d'uscita, per lo spettatore e per il film, che attendere la chiusura, una stanza di motel diventa una vera prigione.

Voto: 5

Wall Street - Il denaro non muore mai

Nel 1987, Oliver Stone metteva alla berlina quel delirante fenomeno sociale chiamato yuppismo e le derive liberiste della società americana con uno dei suoi film più celebri, Wall Street, successo che diede al protagonista Michael Douglas la gioia del premio Oscar. A 23 anni di distanza, grazie all'incombenza di una globale e devastante crisi economica, Stone torna su quei lidi con il seguito del film dedicato alle magagne dell'alta finanza. Che amplifica i difetti dell'originale.
Dopo otto anni di carcere, Gordon Gekko è tornato in libertà e sbarca il lunario scrivendo libri finanziari e apparendo in televisione: attirando l'attenzione di Jake, giovane e rampante broker di una società al collasso che è fidanzato con la figlia di Gekko: affari, intrighi e famiglia s'intrecceranno ben presto. Allan Loeb e Stephen Schiff scrivono un dramma dalla parvenza thriller che si confronta con il tema più attuale ma anche più scivoloso e difficile da trattare, cercando troppo l'appiglio del melodramma familiare.
Il film mette in scena il dietro le quinte dei tracolli economici e finanziari che hanno causato il più grande collasso dal '29, spostando l'attenzione dall'avidità dei singoli all'avidità eretta come sistema, come base sulla quale fondare intere politiche: nel film tutto parla di denaro, tutto è soldi, non solo i comportamenti dei personaggi, ma i luoghi, i volti, gli oggetti, raccontando del consumismo anni '80 come un cancro diffuso tra le nuove forme di economia e finanza creativa. Stone ha la stoffa del narratore di razza e lo si nota nella prima parte, in cui l'investigazione e gli intrighi rendono affascinante una materia potenzialmente micidiale; ma poi si lascia andare al semplicismo manicheo da cui è affetto da sempre e lascia che il film si abbandoni alla deriva dei buoni sentimenti.
Un Money & the City in pratica, in cui la sceneggiatura si perde in citazioni e in-jokes non proprio simpatici prima di ripiegare sulla famiglia e i ricatti emotivi che ricordano molto il cinema americano degli '80, riscattato da una regia spesso efficace nel restituire l'abbraccio affascinante e mortale del vetrocemento dei grattacieli, perfetto parallelo del personaggio di Gekko che Michael Douglas interpreta con l'ambiguità giusta e richiesta per intrappolare personaggi e spettatori: anche perchè, per imbambolare Shia LaBoeuf troppo invischiato nel bravo ragazza e Carey Mulligan, troppo brava mogliettina, non serve certo un genio del male.

Voto: 6

Lo zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti

Fin dalla vittoria, nel maggio di quest'anno, della Palma d'oro al festival di Cannes, il nuovo film del thailandese Apichatpong Weerasethakul ha diviso violentemente gli spettatori. Chi ne ha amato il potenziale immaginifico e il gioco magico dell'immagine, chi ne ha odiato il ritmo cadenzatissimo, quasi opprimente nella sua lentezza, confondendola con la noia. Chi scrive è dalla parte dei primi, pur capendo i secondi.
La storia vede al centro Boonmee, anziano malato di insufficienza renale, che decide di passare gli ultimi suoi giorni in campagna, coi parenti: ma qui gli appaiono i fantasmi del suo passato, con cui parla e che lo aiutano a capire molte cose. Dramma funebre e tradizione fiabesca thailandese si fondono col cinema d'autore più radicale e con la distorsione estrema della forma narrativa in un film, scritto dal regista, che gioca con le percezioni dello spettatore e la sua capacità di sorprender(si).
La cornice esistenziale del faccia a faccia con la malattia e la morte diventa nel film un veicolo per affrontare alcuni dei nodi cardine della cultura e della storia thailandese come la guerra contro il regime comunista, i rapporti con l'immigrazione e per mettere in scena una visione della realtà serena e armoniosa in cui tra natura e cultura, vita e morte, spiritualità e realismo può esistere una terza, sintetica via. Apichatpong conduce il film sul filo rischioso del surrealismo, della ricomposizione degli estremi, della creazione di una realtà in cui i fantasmi visibili a tutti, gli spiriti (come quello del pesce gatto e della parabola della principessa), i luoghi mistici hanno la concretezza della realtà, della materia (la caverna come utero) e il mistero della magia.
Il regista crede in un'idea di cinema estrema in cui non conta cosa accade tra le immagini e le inquadrature, ma dentro le stesse, rendendo visibile attraverso l'uso del tempo e della durata qualcosa che pareva non esserci di primo acchito: chiede tanto, forse troppo allo spettatore, in termini di resistenza, di apertura mentale, di impegno cerebrale, ma a saperlo seguire lo ripaga con una sensazione metafisica e spirituale rara nel cinema odierno (il finale in cui la ricomposizione iniziale si serpara letteralmente è anche riprova di una certa lucidità politica). Che rischia il ridicolo in più di un'occasione (il pesce che deflora la principessa) – e il doppiaggio non aiuta, ma è pregno e vivido, finalmente.  

Voto: 7,5

Tempo di vacanze


 Ho bisogno di una vacanza, per molte ragioni. La prima è che una vacanza non fa mai male. La seconda è che il mio lavoro, la parte che si può definire lavoro, è piacevole, quindi è già una specie di vacanza. Perciò una vacanza sarebbe una vacanza al quadrato. E poi perché scrivere dei luoghi in cui si fanno le vacanze è più fico. E allora decido, mi prendo le vacanze. Traggo ispirazione da Michele Santoro, che dopo un estate passata ad attendere che la dirigenza gli desse l'ok per il programma (e il suo è il più visto di Rai2, che non s'inventassero nulla sul sistema aziendale), ora si vede sospeso per 10 giorni (cioè due puntate) senza stipendio. Per aver detto “vaffanbicchiere”: era il colorito finale di una metafora in cui spiegava attraverso le aziende e le fabbriche il paradosso della situazione in Rai e del suo asservimento al governo.

Il direttore si è adirato (perché in effetti, vaffanbicchiere è una parola esteticamente brutta) senza essere mai esplicitamente nominato e lo ha sospeso. “Non è censura”, dichiara e poco importa se nemmeno il presidente della rete è d'accordo. Quello che importa è che è un proficuo metodo per farsi vacanze e prendersi qualche rivincita coi propri capi. La mia situazione è molto diversa da Santoro, per esempio lui prende un sacco di soldi io no, ma proprio per questo non faccio danno a nessuno a farmi sospendere. A lui rompono le palle a me no: posso passarci sopra.
Vaffanbicchiere Valentino e vaffanbicchiere Alice, perché è come se una fabbrica di bicchieri a nome 4 Magazine mi chiedessi di vendere i miei bicchieri riempiendoli delle stupidaggini con cui riempio questi articoli. Ok, l'invettiva è venuta un po' sbilenca, ma spero solo che mi sospendano per 10 giorni senza stipendio: tanto amen, l'Inps ha confermato che i precari non prenderanno mai la pensione.
E con quei dieci soggiorno come ospite e villeggiante al festival di Roma e mi godrò i 20 minuti di anteprima di Dylan Dog. Non se se li avete visti ma, a meno che produttori, scrittori, regista non abbiano mai letto un albo di Dylan Dog (probabile), pare più un singolare caso di omonimia che una trasposizione del fumetto. Dylan picchia, spara, salta e corre come fosse Schwarzy. L'inquietante parallelismo ha già reso l'eventuale vacanza un piccolo incubo.

martedì 12 ottobre 2010

Colonna sonora di Sharm el Sheikh

L'estate è tempo di vacanze e l'autunno invece segna il ritorno al lavoro, alla fatica, alla routine. Per quale motivo quindi Medusa abbia deciso di fare uscire la sua commedia estiva e vacanziera d'inizio autunno è un mistero, e gli incassi non esaltanti confermo le perplessità. Perfettamente in linea con l'atmosfera vacanziera di Sharm el Sheikh, il film di Ugo Fabrizio Giordani interpretato da Enrico Brignano, è però la colonna sonora di Daniele Falangone, giovane compositore specializzato in commedia.
Qui, l'autore sfrutta tutto il potenziale caratteristico della musica nordafricana e mediorientale per realizzare uno score che mescoli i sapori tipici di una terra e dei suoi clichés con la verve più giocosa e calibrata della commedia farsesca. E col grosso pregio di rinunciare a canzoncini pop precotte e tormentoni di passato successo.
Il tema principale, allegro e accattivante è presente fin dall'inizio, Sharm Whistle, che esplicita proprio la “poetica” della partitura, che poi si lascia completamente prendere dalla (non troppo appassionante) trama e diventa musica di commento quasi trasparente: Uno dei due e i suoi sottotoni, la giovanile malinconia di Giulia e Michele all'alba, la danza del ventre in Belly Dance o la poesia (decisamente non richiesta) del Parto del cammello, fino alla sinergie tipicamente comiche di La gag di Romano e de Pascalis o Lo schiaffo a Saraceni in cui si cita Una vita difficile di Risi. Senza dimenticare la sigla del villaggio vacanze che ha offerto la location del film.
Lavoro industriale senza troppe sbavature, ma anche con pochissime idee e senza troppa convinzione, ma che almeno mostra un'idea di musica da commedia che non sia quella degli effetti o delle strizzate al pubblico che al cinema non va mai. Poi magari sta attaccato al televisore, ma questa è un'altra storia.

Sons of Anarchy - 3x05 - Turning and Turning

Come saprà bene chiunque abbia visto qualche episodio di 24, il sacrificio non solo è un sentimento nobilissimo, ma soprattutto un mezzo emotivo per avvinghiare ed emozionare lo spettatore di cinema e tv. E anche Sutter lo usa, seppure in modo meno esplicito, per il suo show.
Così in questa puntata che getta le fondamenta per un futuro davvero intenso e irto di pericoli di ogni tipo, assistiamo anche a un paio di decisioni sacrificali che scuotono i cuori e rischiano di scuotere – e anche moltissimo – l'impianto della serie. Quali?
Gemma è in ospedale dopo la forte aritmia che l'ha colpita alla notizia che suo nipote è a Belfast e si trova di fronte a un'agente Stahl incazzatissima che vuole fargliela pagare, nel frattempo la faida con Salazar e i suoi si riaccende e rischia complicare ancora di più la situazione, ma la conferma che Abel è a Belfast spinge Lucas a intavolare un pericoloso accordo con Stahl, per permettere alla banda di partire. E speriamo scatenare l'inferno.
Tanta, tantissima carne al fuoco per questo quinto episodio che, pur di transizione (nel senso tecnico, non spregiativo, di portare da un punto A del racconto a un punto B), lo riempie di sfumature, personaggi e intrighi da bastare per 3 episodi di una serie media.
E infatti già il titolo ci fa presagire un sacco di giri, di ribaltamenti di prospettiva: innanzitutto i due più grandi: Gemma, sofferente, ammanettata al letto d'ospedale che viene sempre più umiliata da Stahl (la più grande bitch dai tempi di Alexis di Dynasty), che finge accordi forse inesistenti e la costringe ad ammettere qualcosa che non ha mai fatto, pur di salvare il club; e Jax, che pur di evitare di perdere il secondo genitore in poco tempo accetta di venire a patti con Stahl, offrendogli sul piatto la testa di Jimmy O' e del suo clan, pur di vedere libera la madre.
Se il primo è un sacrificio classico, che mette ancora di più in luce il lato melodrammatico ed emozionale dello show, di uno dei suoi personaggi principali, e dei nodi dell'intera serie, il secondo è quasi un colpo, un sussulto improvviso, che sembra fuori carattere, ma che sottolinea la struttura mobile e fluida della serie, e anche la profonda sostanza emotiva della serie.
Che come ogni serie di livello che si rispetti, è capace di definire i suoi cardini non solo attraverso fatti e situazioni, ma soprattutto attraverso i personaggi, le loro profondità e sfumature, i loro lati e inaspettati, e in questo la sceneggiatura di Dave Erickson e Marco Ramirez, e in generale di questa terza stagione, è praticamente perfetta. Meno la regia di Gwyneth Horder Payton, che pare faticare a seguire il flusso di eventi, ma alla fine se la cava.
Altro episodio sciolto, sicuro e coinvolgente, in cui si sente il volo oceanico ed emotivo che sta per arrivare e che porterà il marchio SAMCRO in Europa: se poi a marchiarlo ci sono le facce dolenti e fiere di Hunnam e Perlman – la sua storyline potrebbe essere straziante come poche – siamo pronti anche noi a dare fuoco a ogni pub che si troveremo di fronte.

Voto: 8

lunedì 11 ottobre 2010

Cattivissimo me

Dove si gioca davvero il discrimine tra nuova e vecchia animazione non è nella qualità della tecnologia, ma nel tipo di storie raccontate, o meglio nella ricchezza con cui le storie più o meno tipiche vengono migliorate o semplicemente “decorate”. Così il nuovo film d'animazione tridimensionale della Paramount vede la più classica delle transizioni verso l'essere genitori abbellita da attimi di crudeltà e da un look modernista. Finendo per divertire molto.
Gru è un uomo misterioso il cui principale obiettivo è diventare il più importante cattivo del pianeta: ma la missione sarà gravemente complicata, oltre che dai suoi avversari, anche da tre piccole bambine che gli vengono affidate. Commedia familiare e avventura spionistico-fantascientifica si mescolano nella sceneggiatura di Ken Daurio e Cinco Paul – tratta da un racconto di Sergio Pablos – in un film per bambini che sfrutta fino in fondo le proprie caratteristiche.
Il film infatti segue alla lontana la scia di Alla ricerca di Nemo ritraendo la formazion adulta di un uomo che vuole la Luna (letteralmente) e che cerca in tutti i modi di essere il più cattivo e potente criminale ma non può contro l'istinto paterno, che le tre piccole intruse coltiveranno e nutriranno giorno dopo giorno: il rischio melenso e familismo conciliante è dietro l'angolo, ma i registi Pierre Coffin e Chris Renaud riescono a evitarlo quasi del tutto grazie alla verve comica e satirica (la competizione al male come specchio dell'America, la Banca del Male già Lehman Brothers) e alla produzione molto ricca, che regala molti momenti visivamente affascinanti.
Ma soprattutto, merito delle invenzioni comiche della sceneggiatura che passano soprattutto per i personaggi del vecchio mentore di Gru, il Dr.Nefario, e i Minions, sorta di pestiferi Oompa-Loompa gialli e numerosi che riempiono lo schermo con gag e simpatia. Il 3D è discreto e vale il prezzo solo per il divertente spezzone sui titoli di coda, Max Giusti se la cava non male nel confronto vocale con Steve Carell e risate e tenerezza si ritagliano i rispettivi spazi. Nulla da chiedere in più da un cartoon.  

Voto: 7

Miss Adèle e l'enigma del faraone

Diciamolo chiaro: è dai tempi del Quinto Elemento che Luc Besson non trova più la verve che ne aveva fatto un cineasta di culto da Le dernier combat passando per Léon. Eroine e film per bambini, per non dire dei tentativi metafisici di Angel-a, non ne hanno risollevato le sorti e allora tanto vale accontentarsi di quello che ci può ancora offrire. Come nel suo ultimo film, tratto dalla serie di fumetti di Jacques Tardi, in cui l'avventura e la fascinazione dell'immaginario lascia spazio al bizzarro umorismo.
Protagonista d'inizio secolo è Adèle Blanc-Sec, giornalista e avventuriera alla ricerca del segreto per ridare la vita alla sorella. Le potrebbe essere d'aiuto il prof.Ménard, se non fosse che le sue ricerche stanno facendo invadere Parigi di mummie, fossili, dinosauri. Sgangherato e pasticciato, ma genuinamente divertente exploit di Luc Besson nel fumetto, un Indiana Jones fumettistico e buffonesco, scritto da Besson, in cui il regista mescola impunemente avventura, commedia e fantasy per un pubblico infantile o per adulti dalla fertile capacità regressiva.
E' infatti la dimensione caricaturale del film a segnarlo fin dall'inizio e a darne il paasso di un baraccone circense in cui gli effetti speciali si congiungono alle tracce melodrammatiche e si scontrano con attimi di comicità delirante (se non greve) che devono il loro ritmo al personaggio centrale di Adèle, donna sbrigativa, indolente, sprezzante, sexy (Besson non rinuncia a inquadrarla nuda nonostante il target), del tutto aliena – e per questo più intrigante – al contesto storico.
La sceneggiatura evidentemente va a casaccio, cucendo pezzi di canovaccio a trovate molto divertenti (la ricerca tra le mummie), mettendo insieme i casuali ingranaggi del meccanismo con un ritmo raffazzonato ma anche con una certa fantasia narrativa. Confusione generale, ma anche trovate buffe e in più, c'è l'occhio del regista nel gestire le giovani protagoniste, nello scegliere visi e corpi accattivanti piegandoli alle esigenze dello schermo. E fa centro anche questa volta con Louise Bourgouin, abile tanto da oscurare persino la presenza di un attore scafato come Mathieu Amalric.

Voto: 6

domenica 10 ottobre 2010

Une sconfinata giovinezza


Come Woody Allen, anche Pupi Avati ha fatto della regolarità e della prolificità un marchio di fabbrica, e nemmeno un anno dopo il precedente Il figlio più piccolo torna in sala col suo 37° film, e sposta lo sguardo dalle deviazioni della società capitalistica al rapporto di coppia e alla malattia. Con risultati dignitosi e anche emozionanti.

Lino è un apprezzato giornalista sportivo, sposato da tanti anni con Chicca, che un giorno comincia a dimenticarsi parole, nomi, fatti. E' il morbo di Alzheimer e l'inizio della prova più difficile per Lino e per il suo amore con Chicca. Un dramma puramente sentimentale in senso lato, una sorta di risposta italiana ad Away from Her con Julie Christie scritta dallo stesso Avati che racconta il lato emotivo di una delle più tremende malattie esistenti.
Il film infatti si concentra sul percorso affettivo al morbo connesso, ritraendo l'evoluzione paradossale del rapporto di coppia dal placido avviarsi all'anzianità fino al ritorno all'infanzia, all giovinezza senza fine, all'età in cui la mente del malato si rifugia: Avati prende Chicca come punto di vista per concentrarsi sulla reazione e sul peso di una scelta d'amore prossima all'ostinazione del sacrificio, e trova un'atmosfera convincente, intensa, in cui le emozioni anche le più cupe e forti non spaventano il regista.
Che però, come gli accade in quasi tutti i suoi ultimi film, cede a un finale patetico e consolatorio che appesantisce la tensione narrativa, come se il gusto del racconto avesse preso la mano ad Avati limitandone l'efficace, come se con l'avanzare degli anni, tenere il passo di un intero film diventasse più difficile: si nota anche nelle difficoltà tecniche della fotografia, nell'inutilità dei flashback. E anche nel modo con cui il direttore d'attori punta esclusivamente sui protagonisti Fabrizio Bentivoglio e una perfetta Francesca Neri dimenticando sfondo e attori secondari, caratteristi e contorni che sono quelli che avrebbero dato un maggiore spessore a un film che conosce le corde da toccare, ma che sul più bello se ne dimentica.

Voto: 6,5

The Town


Dopo il discreto esordio con Gone Baby Gone – sempre un thriller poliziesco di base romanzesca – Ben Affleck bissa il cimento alla regia con un altro film di genere, tratto da un romanzo di Chuck Hogan, stavolta sul filone del cinema di rapina. E, anche più del precedente, dimostra che come regista vale più che come attore.
Doug è un rapinatore esperto, a capo di una banda che, nel quartiere bostoniano di Charlestown, è padrona incontrastata. Ma quando durante una rapina non perfetta sono costretti a prendere un ostaggio che abita vicino a loro, la situazione comincia a prendere una brutta piega. Scritto da Affleck con Peter Craig e Aaron Stockard, un poliziesco vecchio stampo, che guarda a Clint Eastwood e John Wayne e che si spinge, nella costruzione, a seguire lievi e interessanti tracce del Michael Mann di Heat. Il film parte da una constatazione statistico-sociologica, cioè che quel quartiere sia la capitale mondiale delle rapine in banca, per raccontare con piglio deciso la vita suburbana di chi ha deciso fin da subito il proprio destino, di chi da sempre convive col crimine, di chi vede nella delinquenza l’unico lavoro possibile, tradizionalmente tramandato, e la contrappone – seppur in modo solo funzionale – a chi invece la subisce o cerca di debellarla, realizzando, prima che un avvincente intrattenimento uno spaccato urbano; a cui si aggiunge il talento di Affleck nel costruire un indagine parallelo tra la polizia e l’avvicinamento della testimone, l’equilibrio col quale gestisce i toni e i cambi di registro, l’attenzione nel tratteggiare l’oppressione della famiglia e dei conoscenti in un luogo piccolo come Charlestown.
La sceneggiatura si struttura sui topoi del genere, ma è abile nel costruire la sottile tensione tra tutti i personaggi che regge la suspense dell’intero film, mentre la messinscena di Affleck – più solida e meno inventiva dell’esordio – sbaglia poco, non stringe il ritmo al momento giusto, ma rende il finale un quasi western che giustifica il paragone coi due mostri sacri citati prima. E ne definisce anche lo stile attoriale: come loro, Affleck sarà un bravo attore con l’invecchiare. Per ora si limita a provarci, e a far notare come di questo film volesse curare solo la regia, dedicando più attenzioni a Jeremy Renner o alle due protagoniste femminili, Rebecca Hall e la sorprendente (rispetto a Gossip Girl) Blake Lively. Altro segno di talento registico, sapere quali attori valorizzare e quali lasciar da parte, se stesso compreso.

Voto: 7

Step Up 3D


Dopo i cartoni animati, i film fantasy, i cine-comics o le produzioni spettacolari, l’insostenibile mania del 3D colpisce anche i film di danza: a farne le spese sono il film Step Up e il regista Jon Chu che, per il terzo episodio delle imprese danzerecce tra hip-hop e street-dance, si affidano a New York City e all’impianto stereografico. Con risultati in un certo senso sorprendenti.
Moose è un ballerino che ha lasciato la danza per iscriversi a ingegneria con la sua migliore amica: ma il richiamo del ballo è troppo forte e l’incontro con Luke e i Pirati lo porterà nello stordente mondo delle sfide a colpi di danza e hip-hop. Un film di arti marziali con il ballo al posto del kung-fu, scritto da Amy Andelson ed Emily Meyer, che supplisce a ogni possibile debolezza con la forza delle sue coreografie e la ricerca visuale. Il vero pregio del film è di mettere da parte il più possibile le tirate patetiche di film simili, con genitori morti, malattie e sogni impossibili che hanno un ruolo marginale, e per di più pretestuoso, per puntare tutto sulle coreografie, le scene di ballo, le trovate scenografiche e visive: Chu fa così un film in un certo senso astratto, in cui gli scontri tra le “gangs di New York” non avvengono a colpi di coltello e bastone ma di salti e acrobazie e la risoluzione finale s’illumina di neon e raggi laser.
La sceneggiatura è praticamente inesistente (come in molti film di arti marziali) e situazioni e dialoghi sembrano pronti per una parodia (dal titolo del film nel film “Figli delle radiolone”), ma ciò che davvero conta è il lavoro di Chu, Adam Shankman (produttore) e un gruppo di cinque coreografi capaci di reinventare spazi e angoli grazie anche a un uso accorto del 3D. E’ un film trascurabile e banale, che però sa ciò che deve fare e sa farlo, arrivando al nocciolo di quello che potrebbe essere un musical contemporaneo e urbano. Con in più l’aggiunta (e il sovrapprezzo) di un buon effetto tridimensionale.

Voto: 6

Innocenti bugie

June sta andando tranquillamente al matrimonio della sorella, quando si trova coinvolta in un incidente aereo e in un intrigo politico-spionistico a quanto pare gestito dal poco affidabile Roy Miller. Ci sarà da fidarsi di questo sedicente ex-agente segreto?

Intrattenimento allo stato puro. E’ forse questa la definizione più efficace per definire Knight and Day (titolo originale, ovviamente più significativo), nuovo film di James Mangold, ottimo professionista reduce da due buoni film come Walk the Line e Quel treno per Yuma. Stavolta il regista newyorchese vira per l’industria pura, per quel “action con divi” che dovrebbe garantire incassi e successo, ma che a quanto pare non ha dato i risultati sperati.

Commedia d’azione più vicina a Due nel mirino di John Badham che alle ambizioni hitchcockiane,
scritta da Patrick O’Neill cercando di stuzzicare in egual misura il pubblico maschile affamato di adrenalina e quello femminile affezionato alla commedia rosa. Una vecchia operazione produttiva (con esempi superbi come Caccia al ladro di sir Alfred o Sciarada di Donen) che dovrebbe ravvivare un filone, mescolando la sfacciata cialtroneria di spionaggi quasi fantascientifici, le scene d’azione ad alto tassa d’improbabilità, l’ironia citazionista e meta-testuale con le care e vecchie schermaglie seduttive dei tempi della screwball comedy. E pur con 117 milioni di dollari di budget, il film riesce solo a metà. Colpa di una narrazione un po’ ingessata che s’interessa solo dell’ironia dell’azione e che non riesce sempre nemmeno in quella (a parte l’ottimo inseguimento finale a Siviglia).

Mangold, rispetto al film precedente, dosa regia e montaggio in maniera più classica, realizzando forse il suo film meno interessante, ma fino a un certo punto funziona. Quando poi la sceneggiatura vuole farci bere la trasformazione del brutto personaggio di Jane allora ci si irrita. Più che altro, il film è per Tom Cruise (a suo agio con i personaggi invasati) la prova generale per Mission: Impossible 4, mentre faticheremo a dimenticarci della bruttezza del doppiaggio di Cameron Diaz, che già in originale non deve essere stata convincente. E rischia di far passare il film dall’entertainment alla stupidità.

Voto: 6