venerdì 5 agosto 2011

Diario di una schiappa

La letteratura per ragazzi di solito dà vita a film fin troppo targettizzati, adatti a ragazzi e bambini ma poco inclini a intrattenere i genitori: Diario di una schiappa di Thor Freudenthal è una felice eccezione. Tratto dai fumetti e dai libri di Jeff Kinney, il film racconta di Greg, un ragazzino che comincia la scuola media senza avere idea di come muoversi tra bulli, ragazze, fighi e sfigati, un fratello sadico e un paio d'amici da Guinness degli imbranati.
Commedia pre-adolescenziale molto più intelligente della media di prodotti simili che racconta i primi contatti e conflitti sociali di un ragazzino, filtrati dalla verve satirica e iperrealista dello scrittore: senza vie facili, cercando di disegnare personaggi comuni e facili da amare (Greg è un ragazzino volenteroso ma sfortunato, i suoi imbarazzanti compagni sono spesso adorabili) senza dare semplici consigli educativi o morali. Freudenthal e gli sceneggiatori Jacke e Jeff Filgo, Gabe Sachs e Jeff Judah dimostrano un humour a tratti folgorante, al servizio di un film che più che i deboli cuori infantili preferisce stuzzicarne l'intelletto. Missione compiuta.

venerdì 22 luglio 2011

Captain America

Il primo vendicatore in un viaggio indietro nel tempo (e nel cinema)

Joe Johnston si è fatto le ossa negli anni '70 e '80 con Lucas e Spielberg, curando gli effetti speciali di Star Wars 5 e 6 e di Indiana Jones 1 e 2 (per cui vinse l'Oscar agli effetti speciali). E proprio alle atmosfere dei serial avventurosi anni '40 è rimasto legato, basti pensare a due tra i suoi film migliori come Rocketeer e Cielo D'Ottobre: per questo Captain America e il modo con cui ha deciso di portare sul grande schermo l'eroe Marvel sembrano particolarmente adatti alle corde del regista.
La storia è quella di Steve Rogers, ragazzo esile e cagionevole che, nonostante le apparenze, vorrebbe arruolarsi nell'esercito americano durante la seconda guerra mondiale. Ci riesce grazie agli esperimenti del prof. Erskine che lo rendono un super-soldato; gli obiettivi da combattere sono l'Hydra e Teschio Rosso (uno scienziato nazista fuggito al controllo dello stesso Hitler). Avventura fantasy vecchi(ssim)o stile scritta da Chirstopher Markus e Stephen McFeely che rilegge, in maniera forse discutibile, l'immagine del primo tra i grandi supereroi americani e allo stesso tempo si muova al limite tra innovazione (tematica) e conservazione (filmica).
Dopo un doppio prologo, di cui il situato nel presente, il film infatti si svolge come un classico “numero 1” di una serie, con la presentazione delle forze in campo e della genesi tanto dell'eroe quanto del cattivo, la missione, le difficoltà e lo scontro finale, proprio come un vecchio film d'avventura, come un romanzo per ragazzi di un tempo in cui la semplicità diventava limpidezza narrativa; ed è interessante notare come i temi cardine del Captain America di Simon e Kirby – ossia l'incarnazione dei valori primari dell'America contro ogni tipo di minaccia, l'identificazione del concetto di patria in un uomo solo per arrivare più vicino al popolo – vengano aggiornati alla moderna manipolazione mediatica e all'importanza in guerra del denaro più che degli uomini o delle ideologie (Rogers, prima di entrare in battaglia, sponsorizza buoni del tesoro nazionali), aprendo uno squarcio meta-linguistico (i fumetti di Captain America) che il sotto-finale ribadisce con forza (Rogers scappa da un set simil-anni '40).
Chiaramente, il film è pensato come aggancio agli Avengers di Whedon dell'anno prossimo (e infatto pullula di riferimento, dalla mitologia nordica di Thor al padre di Iron man) e Johnston non ha il potenziale per né la voglia di sfruttare quelle idee nel miglior modo, ma il film è un intrattenimento piacevole e coerente nello stile narrativo, visivo e musicale (compone Alan Silvestri), che, a fronte di evidenti cadute di ritmo e tenuta, mette in scena personaggi simpatici e bi-dimensionali come quelli dell'epoca e scene d'azione che, soprattutto il finale aereo, evidenziano la passione per il volo di Johnston. Che nonostante la pratica da semplice mestierante si diverte a costellare i suoi film di marchi d'autore. E noi si gradisce.
 

giovedì 21 luglio 2011

L'uomo d'acciaio forza lo schermo

La fine di Smallville e il fenomeno Superman in tv
 
Negli anni '50, quando il mondo forse era più ingenuo, guardando un oggetto sfrecciare in cielo ci si chiedeva: è un uccello? È un aereo? Oggi, a 60 anni di distanza, figli smaliziati dell'estetica del fumetto, non abbiamo bisogno nemmeno di alzare gli occhi al cielo: è un supereroe, anzi IL supereroe: Superman, l'uomo d'acciaio, la salvezza dell'american way of life creato nel '38 da Jerry Siegel e Joe Shuster.
Una figura messianica e di speranza, ma anche di forza e lotta che ha attraversato indenne – d'altronde è invulnerabile – più di 70 anni di cross-medialità, dal fumetto, al cinema (l'anno prossimo dovrebbe arrivare la versione targata Zack Snyder e scritta dai fratelli Nolan), fino in tv. E, tolta la carta stampata e le infinite rinascite e rivoluzioni che la DC Comics impone ai suoi personaggi, è proprio il piccolo schermo il medium che ha saputo leggere le variazioni di target e contesto rispetto alla figura di Superman.
Cominciamo dalla fine, in tutti i sensi, ma anche il suo contrario: Smallville è finito e qualcuno ha gridato finalmente. La serie targata The CW trasmessa in Italia da Italia 1 ha detto addio al suo pubblico (non proprio numeroso) dopo 218 episodi e 10 anni di messa in onda: la serie creata da Alfred Gough e Miles Millar ha avuto l'accortezza di raccontare il Clark Kent adolescente in Texas – ossia tutta quella parte che i film ignoravano – facendone proprio una versione fantasy del classico teen drama.
Nelle intenzioni la variante maschile di Buffy, nei risultati specie con l'andare degli anni, lo show è diventato tre cose, quasi tutte inessenziali: 1) uno scimmiottamento degli archi e delle linee delle serie disegnate cercando di replicare in modo un po' fasullo l'estetica degli albi; 2) una summa del cinema d'azione, fantasy o horror degli ultimi dieci, realizzato copiando pedissequamente mode e film in quasi ogni episodio (un esempio recente, il terzultimo episodio della serie, calco sbilenco del neo-pelpum che già sufficienti danni ha fatto con 300 e Spartacus); 3) una fotografia, involontaria ovviamente, dell'imbarbarimento dei gusti giovanili, filtrati proprio dall'occhio di chi, coi vari Gossip Girl e simili senza escludere MTV, quei gusti li ha forgiati. E la scelta di rinunciare a Superman per mettere in scena solo l'evoluzione (più o meno) di Clark Kent da ragazzo a uomo, impone di rinunciare a una parte importante del personaggio, lasciando campo libero all'espressione accigliata, perplessa, perennemente stupita di Tom Welling, che anche quando verso la fine dovrebbe incarnare un proto-Superman non ci mette più grinta.
E' curioso notare come la tv abbia raccontato a ritroso il cammino dell'eroe, partendo dalla sua versione adulta e arrivando al ragazzino, come una catena di prequel: risalendo gli anni – come fa l'eroe grazie alla velocità della luce – dal 2001 di Smallville ci si imbatte nel 1993, anno cui in cui Deborah Joy Levine, con lo zampino dell'autore di fumetti John Byrne, crea per ABC Lois & Clark-Le nuove avventure di Superman: già dal titolo, si capisce come gli 88 episodi delle quattro stagioni si concentrino sul versante umano e sentimentale e il colelgamento all'universo del fumetto è limitato all'essenziale, con Lex Luthor rivale anche in amore di Clark, col super-criminale Tempus, con superstiti kryptoniani che vogliono conquistare la terra. Per il resto è avventura tv di medio profilo, con simpatici accenni comedy, comunque ben interpretati da Dean Cain e dalla futura casalinga disperata Teri Hatcher.
Per conoscere il Superman adulto, maturo, bisogna risalire fino al 1952, quando ancora la ABC trasmette le prime avventure live-action di Superman, Adventures of Superman, andate in onda per 104 episodi da mezz'ora lungo 6 stagioni. Qui George Reeves fa tutto ciò che abbiamo sempre voluto fare noi comuni mortali: vola alla velocità della luce, ha una forza illimitata, una vista a raggi X che può anche fondere gli oggetti ed è invulnerabile, tranne che alla kryptonite. Peccato che Reeves sia un macigno stolido e del tutto inespressivo, ma soprattutto che le storie che lo coinvolgono sono poco più che canovacci in cui il supereroe combatte contro criminali comuni, magari un po' più pazzi del solito. Conservatore e conformista, lontanissimo dalla follia del fumetto che nel 2003 crearono un Superman parallelo che rendeva reale l'utopia comunista: creatività illimitata che la tv raramente può permettersi.

I volti d'acciaio (in tutti i sensi)

Christopher Reeve: seppure sul grande schermo, anziché sul piccolo, come non si può non ricordare il Superman per eccellenza, capace al meglio d'incarnare la doppia natura dell'eroe, fragile e inaffondabile, ironica e cristologica? Davvero un uomo d'acciaio per sguardo e stazza, paradossalmente reso inerme da una caduta da cavallo: muore nel 2004, in tempo per apparire in alcuni episodi di Smallville. E di aver segnato l'immaginario con quattro film.

George Reeves: praticamente il gemello del Superman dei film. Perché rappresentante di un look del personaggio e di ideologie tradizionali simili, perché hanno un cognome assonante e perché li accomuna la sfortuna: Reeves (con la s) si suicidò a pochi mesi dalla chiusura della serie. Ma non riuscì a entrare nell'immaginario collettivo, nonostante fosse il primo attore in carne e ossa a volare, piegare pezzi di ferro, bruciare i metalli.

Dean Cain: nella serie che racconta il Superman umano e innamorato, Dean Cain rappresenta la vera faccia del Superman bravo ragazzo, pulito, dalla faccia simpatica e il cui fisico non spaventa. Più Clark che Kal-El (il nome kryptoniano dell'eroe e anche quello del figlio del nerd Nicolas Cage), Cain apre al personaggio la strada della commedia, della baruffa sentimentale, del sorriso familiare. Ma dei cazzotti, ogni tanto si sente la mancanza.

Tom Welling: L'ultimo volto di Superman, prima dell'Henry Cavill del Man of Steel di Snyder, di sicuro il più recente sul piccolo schermo: zazzera mora e occhioni blu, un adolescente smarrito che deve fare i conti con la consapevolezza di un sé in fieri e con la mancanza di buon gusto della campagna del Kansas. Sempre vestito in rosso e blu, camicia di flanella e jeans prima di scoprire il costumino aderente: se avesse scoperto anche l'arte della recitazione...
(pubblicato su The Cinema Show n°11)

Bitch Slap-Le superdotate

  Il ritorno delle maggiorate violente. O solo un malinteso estetico?

Picchiano, scalciano, sparano, mostrano le generose grazie, fanno sesso ma dal loro punto di vista il termine è un po' edulcorato. Sono le vixens, le foxy girl o i molti modi in cui il cinema degli anni '60 e '70 ha chiamato le attrici belle, provocanti, eccessive. E letali. Erano gli anni della sexploitation, quel filone di cinema di serie B (e anche più in basso) che mescolava violenza, azione e sesso quasi esplicito, anticipando la diffusione commerciale dell'hardcore.
Li realizzavano registi che il tempo ha rivalutato come Jesùs Franco, Jean Rollin, Joe D'Amato. E soprattutto Russ Meyer, regista che girava, fotografava, montava e scriveva con stile del tutto personale, autore di film di culto notevoli al di là dell'effetto vintage come Motorpsycho!, Beneath the Valley of Ultravixens e Faster Pussycat! Kill! Kill!
E proprio quest'ultimo film è alla base del film di Rick Jacobson che dal 22 luglio sarà nelle sale italiane: Bitch Slap-Le superdotate, filmetto d'azione con tre spogliarelliste particolarmente dotate dalla natura e dal chirurgo che cercano di spartirsi un bottino, di ammazzare di botte i cattivi – e anche tra di loro – e a destreggiarsi in intrighi spionistici incomprensibile, anche perchè costruiti a ritroso per sfruttare la moda dei flashback a ripetizione. La storia o almeno i personaggi ricalcano abbastanza pedissequamente quelli del film di Meyer (abbondantemente omaggiato nei titoli di testa) ma se quello è un on the road selvaggio e violento, in questo stanno tutti fermi nello stesso posto per un'ora e mezza.
Jacobson è incapace di movimentare un film inerme per definizione, ma soprattutto fa mancare alla pellicola e allo spettatore il ritmo, la vitalità, la forza iconica dei film che vorrebbe rifare, per non parlare della furbizia cinica con cui la pessima fattura tecnica viene fatta passare per volontaria e l'ipocrisia fasulla con cui travisa lo spirito sessuale e di genere del filone: se icone come Tura Satana, Pam Grier, Kitten Natividad (sia lodata) si concedevano incessantemente, solcavano set e inquadrature con fare provocante, si spogliavano, davano il loro corpo quasi a chiunque fosse in scena, le tre modelle stile Playboy del film di Jacobson – vale a dire Julia Voth, Erin Cummings e America Olivo – sono sempre vestite anche nello strip-club e l'unico accenno sessuale che concedono è del petting lesbico.
E questo pone l'accento sul senso e il malinteso di questo fenomeno revival del cinema-bis in lungo e largo per il mondo, dalla coppia Tarantino-Rodriguez fino a Takashi Miike: posto che chi scrive non può non amare il cinema di genere, anche basso, anche datato, con cui è cresciuto, che senso è declinarlo nel riciclo di ciò che era originale 30 anni prima? Ma oltre che sulla morte delle idee e della creatività in parte dell'industria (non solo) hollywoodiana, sarebbe il caso di riflettere anche sui modi in cui il ritorno distorto del cinema trash, dei midnight movies, eccetera invade gli schermi.
E proprio dall'accoppiata cardine Tarantino-Rodriguez bisogna partire, dal loro manifesto teorico: Grindhouse, un double-feature come si usava proprio nei '60. Tarantino in Death Proof rilegge in senso estremo la struttura di quei film e la intellettualizza, ampliando a dismisura il dialogo (spesso imperdibile) e concentrando la violenza in due sequenze fulminanti, operazione discutibile ma personale e a suo modo sensata; Rodriguez in Planet Terror invece replica in modo pedissequo, anche se vagamente ironico e con molti più soldi, quel tipo di cinema e i giochetti citazionisti o le trovate dimostrano che l'unico intento del regista è scherzare, ma ridono solo gli iniziati. E qui sta il crollo di questo revival senza personalità (portato all'estremo in Machete, seppure meglio riuscito del precedente).
Spesso questi film non immortalano l'amore per un tipo di cinema e per la loro tradizione, ma semplicemente l'uso cinico di quei materiali (e dei loro estimatori) per irriderli senza il coraggio della parodia, per raccontare barzellette, per strizzare l'occhio allo spettatore disinteressandosi di regia, messinscena, del cinema insomma. E spesso girati in modo cialtronesco, come il film di Jacobson dimostra, senza alcuna idea di cinema, a differenza degli originali. E allora fatevi un favore: vedetevi l'esilarante Piranha di Aja. O meglio, recuperate lo yakuza-horror-cyber Yakuza Weapon di Sakaguchi e Yamaguchi, e assaporatene il vero amore per la materia filmica e per i suoi trascorsi.

Le Volpi Forza 5 del cinema di serie B
Tura Satana: nome d'arte di Tura Luna Pascual Yamaguchi, mix etnico di esplosiva sensualità, viso raffinato e corpo da rivista porno. Ma oltre al sesso, vita e carriera s'incentrano sulla violenza, tra il karate e l'arma da fuoco: la sua mitica Varla nel film di Meyer è un colpo al cuore per ogni feticista, seduce uomini e donne, spara, rapina e travolge con l'auto chinque, persino un paralitico. Come si fa a non innamorarsene?

Pam Grier: anche più di Satana, vera icona della sexploitation. O meglio della Blaxploitation, il filone adattato ai gusti afroamericani. E Pam è una nera dal fisico sinuoso e indimenticabile, ma anche con un carisma e un talento recitativo che raramente attrici del genere hanno. Diventata immortale con Coffy e Foxy Brown, torna alla ribalta con Fuga da Los Angeles e soprattutto Jackie Brown: è di nuovo amore.

Francesca Kitten Natividad: altra icona, oltre che compagna, di Russ Meyer è la più dolce delle dive della sexploitation: volto simpatico e cartoonesco, fisico morbidissimo dall'enorme seno materno, Kitten diventa famosa grazie al geniale Beneathe the Valey of Ultravixens, in cui balla per il suo uomo quasi impotente armata di un calzino e un uovo. Uno degli apici del cinema meyeriano. E della sua carriera.

Laura Gemser: splendida attrice di origine indonesiana, molto meno popputa delle sue colleghe, deve la sua fama alla serie Emanuelle nera che rivedeva in chiave softcore e casareccia (dirigevano D'Amato o Albertini) del celebre romanzo erotico di Arsan. La sua sensualità raffinata e il suo impegno “proto-femminista” ne hanno fatto un'attrice che ha resistito al tempo grazie a film come Emanuelle: perché violenza alle donne?

Edwige Fenech: se non la più bella donna del cinema italiano, sicuramente il seno più bello e l'attrice più vivace di quel cinema anni '70 nostrano che spesso era pura goliardia. Portata per la commedia sexy (irresistibile in Taxi Girl), con puntate efficaci nel thriller (Lo strano vizio della signora Wardh), ha dato il meglio del suo “talento” nel celeberrimo Alle dame del castello piace molto fare quello o nel censuratissimo Top Sensation.
(pubblicato su The Cinema Show n°11)
   

lunedì 13 giugno 2011

Non ci sono più i teenager di una volta

Le serie giovanili Made in USA: come sono e come erano

Per poter dire c'era una volta, forse bisogna risalire fino al 1974, quando Garry Marshall per la ABC creò Happy Days, la sitcomedy più famosa di sempre – almeno fino a Friends – che vedeva al centro delle sue vicende un gruppo di ragazzi di Milwaukee e le loro storie. Potremmo risalire a quella serie per porre la prima pietra nella fondazione dei teen dramas, le serie famose e famigerate che hanno come target e come nucleo narrative un gruppo di adolescenti, possibilmente in età scolastica o universitaria.
Ma la vera e propria rivoluzione, il salto dello squalo per dirla con Fonzie e compagnia, avviene nel 1990, quando il marpione chiamato Aaron Spelling assieme a un altro filibustiere della serialità come Darren Star creano la madre – meglio la figlia vista l'età media – di tutte le serie per ragazzi: Beverly Hills 90210, lo show targato Fox che per 296 episodi spalmati su 10 stagioni che ridefinito l'essenza stessa degli adolescenti in tv: storie d'amore ora tormentate, ora tragiche, di rado serene, temi sociali all'acqua di rose ma che fanno presa sul pubblico, attori e attrici belli e fascinosi, più di rado sexy, che portano lo spettatore a innamorarsi garantendo il successo. In pratica più una soap-opera che un dramma televisivo, ma di grande e duraturo seguito.
Talmente duraturo da generare uno spin-off, Melrose Place, ma soprattutto da dare vita ai giorni nostri a un remake dal titolo 90210. Non solo: sugli stessi schermi appare anche Melrose Place, aggiornamento, se non remake, della serie omonima. Proprio l'approdo dei due remake sulla rete Fox italiana (Sky) dei due remake, di cui 90210 con la seconda stagione e l'altro in prima visione con l'unica stagione prodotta, viene da porsi un interrogativo: cosa è successo alle serie adolescenziali da portare i network a investire su rifacimenti piuttosto che su prodotti originali? Specialmente The CW, che con One Tree Hill sta conseguendo interessanti risultati da 8 stagioni, perché punta a rimestare nel già visto anziché cercare di catturare l'adolescenza degli anni '10? In sostanza, cosa è cambiato negli anni da far declinare l'interesse per le serie teen e relegarle a una nicchia?
Oltre alle novità tecnologiche che portano il pubblico a guardare sempre meno i programmi “in diretta” e a registrarli su comodi hard disk, o all'evoluzione di streaming e peer to peer che portano davvero gli utenti di tutto il mondo a vivere delle dirette globali (fenomeno cominciato con gli Oscar e lo sport e proseguito con le serie tv, Glee su tutte), il cuore del problema sta nel modo in cui la narrativa tv del nuovo millennio ha saputo, o meno, guardare i giovani dei nostri anni.
Beverly Hills e 8 anni dopo Dawson's Creek – vero e proprio culto a cavallo del millennio, creato nel '98 da Kevin Williamson e trasmesso da The Wb (predecessore di The Cw) per sei stagioni – sono entrati nell'immaginario collettivo per la capacità di entrare dentro il mondo giovanile, di descriverne usi e costumi, di aggiornarne i gusti e le sensibilità, di ca(r)pirne le dinamiche: Beverly Hills racconta i figli degli anni '80, ricchi ed edonisti, il loro rapporto pericoloso eppure imprescindibile con le droghe – soprattutto la cocaina – la logica del live fast, die young che accompagna sempre i momenti di boom economico, la decadenza giovanile che si contrappone al fiorire economico; a quasi dieci anni di distanza, Dawson's Creek mette in scena invece i resti dell'era grunge, della fine del sogno americano inteso come epopea della ricchezza borghese e racconta ragazzi di provincia, di classe media quando non proletari, e del loro bisogno di una sensibilità artistica e psicologica (ma anche psicoanalitica) che il decennio precedente aveva spazzato.
I nuovi prodotti seriali per ragazzi, prendendo come emblema il più celebre Gossip Girl, hanno smesso di essere uno specchio e si pongono come vetrina: per attori e attrici carini il giusto, per storielle e intrighi da romanzo Harmony, per un'idea di tv ferma a E! Entertainment e Nonsolomoda. Poi dici che un network non si butta sui remake, anche grazie al successo di repliche e dvd degli originali: ma purtroppo senza aggiornarne lo spirito, limitandosi semplicemente a tirarli a lucido. Fallendo, come dimostra la chiusura di Melrose Place dopo un solo anno: e allora non rimane loro che leccarsi le ferite, mentre noi ce ne torniamo a ricordare i tempi di Kelly e Dylan, o Joey e Pacey.
(pubblicato su The Cinema Show n°10)

Il signore degli anelli - La trilogia in blu-ray

Ogni cinefilo nerd, o anche solo nerd senza bisogno di cinefilia, avrà nel 2011 un anno capitale: quello in cui le due saghe più amate del cinema fantastico vedranno la loro edizione definitiva. Ma se per la saga di Star Wars c'è da attendere ancora un po', per Il signore degli anelli – la monumentale trilogia tolkeniana diretta da Peter Jackson – c'è molto meno da aspettare. Per la precisione fino al 28 giugno, quando la Medusa licenzierà un cofanetto contenente 6 blu ray disc (2 per film) in cui sarà possibile godere oltre ogni possibile splendore le versioni estese della Compagnia dell'anello, delle Due torri e del Ritorno del re.
Il modo migliore per poter apprezzare, riapprezzare o imparare a memoria uno dei pochi eventi cinematografici del nuovo millennio, prima del primatista Avatar, il quale però ha meno potenza epica e sapienza cinematografica del trittico di Jackson. Il regista neo-zelandese, già noto per gioielli splatter come Bad Taste o, appunto, Splatters e drammi come Creature del cielo, a cavallo tra '900 e 2000 fa il balzo verso il grande cinema di massa, ma nel senso più nobile del termine, portando a compimento definitivo un percorso che aveva già dato ottimi risultati nel sottovalutato Sospesi nel tempo, prodotto da Robert Zemeckis. E quale miglior base di partenza se non Il signore degli di J.R.R.Tolkien, la bibbia del fantasy?
E infatti, Il signore degli anelli versione Tolkien sta al cinema del terzo millennio come I dieci comandamenti di De Mille sta alla Hollywood classica: era proprio dai tempi dei drammi biblico-fantasy di De Mille che un regista non provava a rendere su pellicola e pixel digitali uno spettacolo così totale, enorme, ambizioso, che ben prima del rilancio del 3D (i film usciranno in sala tra il 2001 e il 2003) sembravo stare stretto dentro i quattro lati dello schermo cinematografico, e ancora di più dentro il rettangolo televisivo. Jackson non si è limitato a mettere in scena l'epico e fluviale racconto di Tolkien o a giocare con lo spettacolo, come aveva fatto in maniera semi-fallimentare Ralph Bakshi nella sua versione animata del '78, ma ha creato un mondo, ha cercato di tramutare un'avventura di battaglie e mostri in una cosmogonia, nella resa visiva e narrativa di un intero mondo in esplosione.
Come Mosé che deve guidare il suo popolo fuori dalla schiavitù, qui il piccolo hobbit Frodo (Elijah Wood) deve guidare l'intero mondo fuori dal dominio terribile di Sauron, incarnazione del male assoluto che, perso il corpo, costruisce eserciti per dominare la Terra di Mezzo e riconquistare l'anello che gli permetterà di tornare a governare in carne e orride ossa; proprio quell'anello magico che Frodo dovrà distruggere nel fuoco simbolico del monte Fato. Ma se nel racconto biblico Mosé era solo e il popolo era uno ed eletto, qui Frodo ha una compagnia attorno a sé che mette insieme tutte le varie “razze” di cui è composta l'umanità, dagli hobbit agli elfi, dai nani agli umani; e dove là c'era Dio, qui c'è Gandalf, mago saggio e potente, austero e risolutivo, vendicativo quando serve.
Ovviamente a Jackson – e prima ancora a Tolkien – non interessa aggiornare la parabola religiosa, quanto raccontare l'umanità sull'orlo letterale del baratro, il ciglio del monte dal quale lanciare l'anello o farsi dominare: e se negli anni '50, quando uscì il triplice romanzo, era piuttosto facile pensare a un'allegoria del giogo comunista, a ridosso del World Trade Center e dello scontro Bush-Bin Laden, l'orizzonte politico-metaforico diventa più sfumato e ambiguo e non si capisce bene se Tolkien sia un falco o una colomba.
Obiettivamente poco importa, visto che Jackson è riuscito a creare la più compiuta versione dell'epica classica al cinema, dando vita e forza non solo a un romanzo entrato nell'immaginario collettivo e rimastoci nei decenni ma soprattutto rendendo immortale un'idea di cinema davvero fuori target, che mescola arcaico, classico, moderno e contemporaneo giocando con ogni possibile registro narrativo, arrivando a creare nuovi metodi tecnico-produttivi (le più di 11 ore dei tre film – meno di 9,5 nella versione “tagliata” - sono state realizzate contemporaneamente, con Jackson ubiquo su più set attraverso il satellite), a lambire le arti visivi digitali attraverso l'uso della tecnologia. A reinventare lo spettacolo cinematografico, in pratica, incassando circa 3 miliardi di dollari.
A questi 6 imperdibili blu ray, il cofanetto aggiunge 9 dvd con un documentario in 3 parti del regista sulla realizzazione del film, 43 documentari intitolati “Le appendici” che raccontano l'intero processo produttivo del film, mappe interattive, foto, disegni, storyboard e, ovviamente, i commenti dello stesso Jackson. Sufficienti, forse, per riempire l'attesa dello Hobbit.
(pubblicata su The Cinema Show n°10)

lunedì 23 maggio 2011

E' cinema o calcio?

Annunciazione annunciazione. Il festival di Cannes è finito ieri. E io sto sempre sul pezzo, per cui parlo dei risultati oggi. Che tendenze e aspettative vengono fuori dal palmares del 64° festival francese?
La vittoria di quel film incredibile di The Tree of Life di Malick (a voi la mia recensioneil mio video) era prevedibile e talmente giusta da essere quasi ininfluente. Come la giuria, divisa tra Hollywood, Europa commerciale e di ricerca e nuove cinematografie (anche se Johnnie To non è un esordiente), anche il palmares è equo e variopinto: il gran premio della giuria ha premiato il cinema d'autore duro e puro ed è anche quello che ha lasciato più scontenti i presenti, tra Once upon a Time in Anatolia di Ceylan e Il ragazzo con la bicicletta dei Dardenne, tutti e tre fedelissimi dei premi sulla Croisette e forse legati a un'idea di cinema poco attuale. Il che non vuol dire nulla se per attuale s'intende il cinema "di tendenza". Ceylan è fatto per dividere (il film non l'ho visto) e i Dardenne non sono al massimo con l'ultimo film, ma sono cineasti rigorosi e complessi che è giusto, anche solo concettualmente, premiare. Forse per attuale s'intende Nicholas Winding Refn che ha vinto il premio per la miglior regia con Drive: ben venga, tra i giovani autori è uno dei più esplosivi.
Il premio della giuria, ossia la medaglia di bronzo, a Polisse dell'attrice-regista-sospiratrice patetica sul palco Maiwenn: c'è chi l'ha reputato splendido, chi figlio di Distretto di polizia: la verità forse starà nel mezzo, ma lei che fingeva di essere devastata dall'emozione, fin troppo magra e con enormi denti, è un'immagine poco seducente. Gli attori migliori sono stati il grande Jean Dujardin per il film rivelazione The Artist di Haznavicious (recuperate dello stesso regista e dello stesso attore i film comico-avventurosi di OSS 117) e Kirsten Dunst per la pietra dello "scandalo" Melancholia. Infine la sceneggiatura al film che nessuno ha visto Footnote di Cedar.
Di tutto questo a giornali e giornalisti nostrani interessa poco: perchè il vero senso della Croisette sembra che i film italiani non abbiano vinto niente. Disdetta: sarà colpa di questo cinema comunista che ormai ha fatto il suo tempo o degli stranieri che remano contro per tenerci all'oscuro della gloria? La risposta più sensata sarebbe: ecchissenefrega, ma sarebbe anche la meno elegante. Mi fermo però un attimo a pensare a come anche per il cinema e l'arte, in Italia sia tutto sempre ridotto a una questione di tifoseria, di noi o loro, di ragione o torto. Non esiste il cinema italiano. Come non esiste il cinema francese, tedesco, turco o americano. Questa definizione ha senso come industria e non è certo al festival di Cannes che si giudica lo stato di salute di una cinematografia, e ancora di meno grazie a un premio. A Cannes, ma in generale, esistono i film belli e quelli brutti, quelli che arricchiscono e quelli che danneggiano lo spettatore. Se avesse vinto un brutto film italiano saremmo dovuti essere più contenti rispetto alla vittoria di un grande film americano o comunque straniero. Reputo Habemus papam di moretti un gran film, e mi dispiace che non abbia vinto, almeno l'incredibile Piccoli: ma posso arrabbiarmi perchè è italiano? Il cinema non è calcio. La politica non è calcio. Il problema è che in Italia esiste il calcio, anche dove non c'è. Anche come opprimente metafora.

sabato 21 maggio 2011

Ci tocca anche Von Trier, pardon Sgarbi

Guardo molto poco la tv. Telegiornali e serie tv, qualche film. E a parte le news, mai in diretta, mentre vanno in onda. Preferisco registrare, scaricare, guardare in streaming, E proprio tramite lo streaming sul sito della Rai volevo recuperare il programma di Sgarbi, l'anti-Saviano voluto da Masi e parzialmente boicottato dalla nuova direttrice generale Lei. Ma l'hanno cancellato anche dallo streaming.
Le uniche immagini che ho visto è Sgarbi che faceva la questua, maledicendo Il fatto quotidiano e relegando ai margini Morgan, un poveraccio che ormai deve elemosinare apparizioni tv, evidentemente. Che prova ad aprire bocca, ma viene spintonato via con rabbia. E reagisce - Morgan - intelligentemente richiamandolo all'"ordine". Poi però il video su Youtube si ferma. Chissà quali altri perle ci avrebbe regalato un programma che lo stesso Berlusconi si è sentito in dovere di festeggiare a casa sua. Di che parlava sto programma? Chi c'era? Cosa succedeva? Nessuno ne parla, nemmeno sui giornali. Forse perché non l'hanno visto nemmeno loro.
Chi ne sa qualcosa parli ora, o taccia per sempre. Come dovrebbe fare Sgarbi, se non esce dalla maledizione del suo personaggio.

venerdì 20 maggio 2011

Ti sogno La Croisette...

Chi si ricorda di me? Spero qualcuno.
Torno su questi pixel perché ho pensato che, piuttosto che postare recensioni che posto da qualche altra parte potrei usare questo blog, pensate, come un blog. Per dire la mia. Per buttare pareri su ciò che accade nel mondo, del cinema in particolare e dello spettacolo, ma non solo.
Un po' come Ferrara, ma con meno altezza, meno panza, meno barba, meno soldi. 3000€ al giorno in meno, per l'esattezza.
Per esempio Von Trier: è un coglione, umanamente parlando. Il cineasta, odiatissimo come altri mai, anche più i Inarritu, è sempre in grado di regalare cose interessanti (persino nel brutto Idioti e nel molto discutibile Antichrist) quando non belle, però sta male. E il precedente film era un grido di aiuto, come pare sia Melancholia. Misogino ed esaltato lo è sempre stato, ora è pure depresso. Facciamo finta che lo capiamo. Ma essere coglioni lo capiamo? Io un po' meno.
Perchè anche per fre pubblicità a sé stessi e ai propri film bisogna essere scaltri. Non dei totali deficienti che pensano che scandalo e parole a caso portino il pubblico al cinema. Per altro con un film che, a quanto si dice a cannes, sia molto più bello dei suoi ultimi. E quindi dicendo che capisce Hitler, solo soletto, nel bunker, a meditare il suicidio, gli fa simpatia è una stronzata senza senso detta in un contesto senza senso in cui parlava a casaccio come un ubriaco. Basta per cacciarlo via dal festival?
Forse no. Ma passare una vita a farti pubblicità in modi ridicoli, sulle spalle dei tuoi film, dei tuoi attori e dei festival che ti ospitano è troppo. Il vero problema è il modo ipocrita con cui cannes ha approfittato della situazione:  prima ha costretto Von Trier a chiedere scusa, poi l'ha fatto sfilare sulla montée des marches, e solo 24 ore dopo ha elaborato che doveva cacciarlo. Hanno sfruttato l'evento e poi hanno salvato le apparenze. Jacob è furbo, ma anche ipocrita. O meglio opportunista. 
Tutto questo per dire che raccontare queste cose così, da qui, anziché da Cannes, è tutta un'altra storia. Meno bella, converrete con me.