venerdì 22 luglio 2011

Captain America

Il primo vendicatore in un viaggio indietro nel tempo (e nel cinema)

Joe Johnston si è fatto le ossa negli anni '70 e '80 con Lucas e Spielberg, curando gli effetti speciali di Star Wars 5 e 6 e di Indiana Jones 1 e 2 (per cui vinse l'Oscar agli effetti speciali). E proprio alle atmosfere dei serial avventurosi anni '40 è rimasto legato, basti pensare a due tra i suoi film migliori come Rocketeer e Cielo D'Ottobre: per questo Captain America e il modo con cui ha deciso di portare sul grande schermo l'eroe Marvel sembrano particolarmente adatti alle corde del regista.
La storia è quella di Steve Rogers, ragazzo esile e cagionevole che, nonostante le apparenze, vorrebbe arruolarsi nell'esercito americano durante la seconda guerra mondiale. Ci riesce grazie agli esperimenti del prof. Erskine che lo rendono un super-soldato; gli obiettivi da combattere sono l'Hydra e Teschio Rosso (uno scienziato nazista fuggito al controllo dello stesso Hitler). Avventura fantasy vecchi(ssim)o stile scritta da Chirstopher Markus e Stephen McFeely che rilegge, in maniera forse discutibile, l'immagine del primo tra i grandi supereroi americani e allo stesso tempo si muova al limite tra innovazione (tematica) e conservazione (filmica).
Dopo un doppio prologo, di cui il situato nel presente, il film infatti si svolge come un classico “numero 1” di una serie, con la presentazione delle forze in campo e della genesi tanto dell'eroe quanto del cattivo, la missione, le difficoltà e lo scontro finale, proprio come un vecchio film d'avventura, come un romanzo per ragazzi di un tempo in cui la semplicità diventava limpidezza narrativa; ed è interessante notare come i temi cardine del Captain America di Simon e Kirby – ossia l'incarnazione dei valori primari dell'America contro ogni tipo di minaccia, l'identificazione del concetto di patria in un uomo solo per arrivare più vicino al popolo – vengano aggiornati alla moderna manipolazione mediatica e all'importanza in guerra del denaro più che degli uomini o delle ideologie (Rogers, prima di entrare in battaglia, sponsorizza buoni del tesoro nazionali), aprendo uno squarcio meta-linguistico (i fumetti di Captain America) che il sotto-finale ribadisce con forza (Rogers scappa da un set simil-anni '40).
Chiaramente, il film è pensato come aggancio agli Avengers di Whedon dell'anno prossimo (e infatto pullula di riferimento, dalla mitologia nordica di Thor al padre di Iron man) e Johnston non ha il potenziale per né la voglia di sfruttare quelle idee nel miglior modo, ma il film è un intrattenimento piacevole e coerente nello stile narrativo, visivo e musicale (compone Alan Silvestri), che, a fronte di evidenti cadute di ritmo e tenuta, mette in scena personaggi simpatici e bi-dimensionali come quelli dell'epoca e scene d'azione che, soprattutto il finale aereo, evidenziano la passione per il volo di Johnston. Che nonostante la pratica da semplice mestierante si diverte a costellare i suoi film di marchi d'autore. E noi si gradisce.
 

giovedì 21 luglio 2011

L'uomo d'acciaio forza lo schermo

La fine di Smallville e il fenomeno Superman in tv
 
Negli anni '50, quando il mondo forse era più ingenuo, guardando un oggetto sfrecciare in cielo ci si chiedeva: è un uccello? È un aereo? Oggi, a 60 anni di distanza, figli smaliziati dell'estetica del fumetto, non abbiamo bisogno nemmeno di alzare gli occhi al cielo: è un supereroe, anzi IL supereroe: Superman, l'uomo d'acciaio, la salvezza dell'american way of life creato nel '38 da Jerry Siegel e Joe Shuster.
Una figura messianica e di speranza, ma anche di forza e lotta che ha attraversato indenne – d'altronde è invulnerabile – più di 70 anni di cross-medialità, dal fumetto, al cinema (l'anno prossimo dovrebbe arrivare la versione targata Zack Snyder e scritta dai fratelli Nolan), fino in tv. E, tolta la carta stampata e le infinite rinascite e rivoluzioni che la DC Comics impone ai suoi personaggi, è proprio il piccolo schermo il medium che ha saputo leggere le variazioni di target e contesto rispetto alla figura di Superman.
Cominciamo dalla fine, in tutti i sensi, ma anche il suo contrario: Smallville è finito e qualcuno ha gridato finalmente. La serie targata The CW trasmessa in Italia da Italia 1 ha detto addio al suo pubblico (non proprio numeroso) dopo 218 episodi e 10 anni di messa in onda: la serie creata da Alfred Gough e Miles Millar ha avuto l'accortezza di raccontare il Clark Kent adolescente in Texas – ossia tutta quella parte che i film ignoravano – facendone proprio una versione fantasy del classico teen drama.
Nelle intenzioni la variante maschile di Buffy, nei risultati specie con l'andare degli anni, lo show è diventato tre cose, quasi tutte inessenziali: 1) uno scimmiottamento degli archi e delle linee delle serie disegnate cercando di replicare in modo un po' fasullo l'estetica degli albi; 2) una summa del cinema d'azione, fantasy o horror degli ultimi dieci, realizzato copiando pedissequamente mode e film in quasi ogni episodio (un esempio recente, il terzultimo episodio della serie, calco sbilenco del neo-pelpum che già sufficienti danni ha fatto con 300 e Spartacus); 3) una fotografia, involontaria ovviamente, dell'imbarbarimento dei gusti giovanili, filtrati proprio dall'occhio di chi, coi vari Gossip Girl e simili senza escludere MTV, quei gusti li ha forgiati. E la scelta di rinunciare a Superman per mettere in scena solo l'evoluzione (più o meno) di Clark Kent da ragazzo a uomo, impone di rinunciare a una parte importante del personaggio, lasciando campo libero all'espressione accigliata, perplessa, perennemente stupita di Tom Welling, che anche quando verso la fine dovrebbe incarnare un proto-Superman non ci mette più grinta.
E' curioso notare come la tv abbia raccontato a ritroso il cammino dell'eroe, partendo dalla sua versione adulta e arrivando al ragazzino, come una catena di prequel: risalendo gli anni – come fa l'eroe grazie alla velocità della luce – dal 2001 di Smallville ci si imbatte nel 1993, anno cui in cui Deborah Joy Levine, con lo zampino dell'autore di fumetti John Byrne, crea per ABC Lois & Clark-Le nuove avventure di Superman: già dal titolo, si capisce come gli 88 episodi delle quattro stagioni si concentrino sul versante umano e sentimentale e il colelgamento all'universo del fumetto è limitato all'essenziale, con Lex Luthor rivale anche in amore di Clark, col super-criminale Tempus, con superstiti kryptoniani che vogliono conquistare la terra. Per il resto è avventura tv di medio profilo, con simpatici accenni comedy, comunque ben interpretati da Dean Cain e dalla futura casalinga disperata Teri Hatcher.
Per conoscere il Superman adulto, maturo, bisogna risalire fino al 1952, quando ancora la ABC trasmette le prime avventure live-action di Superman, Adventures of Superman, andate in onda per 104 episodi da mezz'ora lungo 6 stagioni. Qui George Reeves fa tutto ciò che abbiamo sempre voluto fare noi comuni mortali: vola alla velocità della luce, ha una forza illimitata, una vista a raggi X che può anche fondere gli oggetti ed è invulnerabile, tranne che alla kryptonite. Peccato che Reeves sia un macigno stolido e del tutto inespressivo, ma soprattutto che le storie che lo coinvolgono sono poco più che canovacci in cui il supereroe combatte contro criminali comuni, magari un po' più pazzi del solito. Conservatore e conformista, lontanissimo dalla follia del fumetto che nel 2003 crearono un Superman parallelo che rendeva reale l'utopia comunista: creatività illimitata che la tv raramente può permettersi.

I volti d'acciaio (in tutti i sensi)

Christopher Reeve: seppure sul grande schermo, anziché sul piccolo, come non si può non ricordare il Superman per eccellenza, capace al meglio d'incarnare la doppia natura dell'eroe, fragile e inaffondabile, ironica e cristologica? Davvero un uomo d'acciaio per sguardo e stazza, paradossalmente reso inerme da una caduta da cavallo: muore nel 2004, in tempo per apparire in alcuni episodi di Smallville. E di aver segnato l'immaginario con quattro film.

George Reeves: praticamente il gemello del Superman dei film. Perché rappresentante di un look del personaggio e di ideologie tradizionali simili, perché hanno un cognome assonante e perché li accomuna la sfortuna: Reeves (con la s) si suicidò a pochi mesi dalla chiusura della serie. Ma non riuscì a entrare nell'immaginario collettivo, nonostante fosse il primo attore in carne e ossa a volare, piegare pezzi di ferro, bruciare i metalli.

Dean Cain: nella serie che racconta il Superman umano e innamorato, Dean Cain rappresenta la vera faccia del Superman bravo ragazzo, pulito, dalla faccia simpatica e il cui fisico non spaventa. Più Clark che Kal-El (il nome kryptoniano dell'eroe e anche quello del figlio del nerd Nicolas Cage), Cain apre al personaggio la strada della commedia, della baruffa sentimentale, del sorriso familiare. Ma dei cazzotti, ogni tanto si sente la mancanza.

Tom Welling: L'ultimo volto di Superman, prima dell'Henry Cavill del Man of Steel di Snyder, di sicuro il più recente sul piccolo schermo: zazzera mora e occhioni blu, un adolescente smarrito che deve fare i conti con la consapevolezza di un sé in fieri e con la mancanza di buon gusto della campagna del Kansas. Sempre vestito in rosso e blu, camicia di flanella e jeans prima di scoprire il costumino aderente: se avesse scoperto anche l'arte della recitazione...
(pubblicato su The Cinema Show n°11)

Bitch Slap-Le superdotate

  Il ritorno delle maggiorate violente. O solo un malinteso estetico?

Picchiano, scalciano, sparano, mostrano le generose grazie, fanno sesso ma dal loro punto di vista il termine è un po' edulcorato. Sono le vixens, le foxy girl o i molti modi in cui il cinema degli anni '60 e '70 ha chiamato le attrici belle, provocanti, eccessive. E letali. Erano gli anni della sexploitation, quel filone di cinema di serie B (e anche più in basso) che mescolava violenza, azione e sesso quasi esplicito, anticipando la diffusione commerciale dell'hardcore.
Li realizzavano registi che il tempo ha rivalutato come Jesùs Franco, Jean Rollin, Joe D'Amato. E soprattutto Russ Meyer, regista che girava, fotografava, montava e scriveva con stile del tutto personale, autore di film di culto notevoli al di là dell'effetto vintage come Motorpsycho!, Beneath the Valley of Ultravixens e Faster Pussycat! Kill! Kill!
E proprio quest'ultimo film è alla base del film di Rick Jacobson che dal 22 luglio sarà nelle sale italiane: Bitch Slap-Le superdotate, filmetto d'azione con tre spogliarelliste particolarmente dotate dalla natura e dal chirurgo che cercano di spartirsi un bottino, di ammazzare di botte i cattivi – e anche tra di loro – e a destreggiarsi in intrighi spionistici incomprensibile, anche perchè costruiti a ritroso per sfruttare la moda dei flashback a ripetizione. La storia o almeno i personaggi ricalcano abbastanza pedissequamente quelli del film di Meyer (abbondantemente omaggiato nei titoli di testa) ma se quello è un on the road selvaggio e violento, in questo stanno tutti fermi nello stesso posto per un'ora e mezza.
Jacobson è incapace di movimentare un film inerme per definizione, ma soprattutto fa mancare alla pellicola e allo spettatore il ritmo, la vitalità, la forza iconica dei film che vorrebbe rifare, per non parlare della furbizia cinica con cui la pessima fattura tecnica viene fatta passare per volontaria e l'ipocrisia fasulla con cui travisa lo spirito sessuale e di genere del filone: se icone come Tura Satana, Pam Grier, Kitten Natividad (sia lodata) si concedevano incessantemente, solcavano set e inquadrature con fare provocante, si spogliavano, davano il loro corpo quasi a chiunque fosse in scena, le tre modelle stile Playboy del film di Jacobson – vale a dire Julia Voth, Erin Cummings e America Olivo – sono sempre vestite anche nello strip-club e l'unico accenno sessuale che concedono è del petting lesbico.
E questo pone l'accento sul senso e il malinteso di questo fenomeno revival del cinema-bis in lungo e largo per il mondo, dalla coppia Tarantino-Rodriguez fino a Takashi Miike: posto che chi scrive non può non amare il cinema di genere, anche basso, anche datato, con cui è cresciuto, che senso è declinarlo nel riciclo di ciò che era originale 30 anni prima? Ma oltre che sulla morte delle idee e della creatività in parte dell'industria (non solo) hollywoodiana, sarebbe il caso di riflettere anche sui modi in cui il ritorno distorto del cinema trash, dei midnight movies, eccetera invade gli schermi.
E proprio dall'accoppiata cardine Tarantino-Rodriguez bisogna partire, dal loro manifesto teorico: Grindhouse, un double-feature come si usava proprio nei '60. Tarantino in Death Proof rilegge in senso estremo la struttura di quei film e la intellettualizza, ampliando a dismisura il dialogo (spesso imperdibile) e concentrando la violenza in due sequenze fulminanti, operazione discutibile ma personale e a suo modo sensata; Rodriguez in Planet Terror invece replica in modo pedissequo, anche se vagamente ironico e con molti più soldi, quel tipo di cinema e i giochetti citazionisti o le trovate dimostrano che l'unico intento del regista è scherzare, ma ridono solo gli iniziati. E qui sta il crollo di questo revival senza personalità (portato all'estremo in Machete, seppure meglio riuscito del precedente).
Spesso questi film non immortalano l'amore per un tipo di cinema e per la loro tradizione, ma semplicemente l'uso cinico di quei materiali (e dei loro estimatori) per irriderli senza il coraggio della parodia, per raccontare barzellette, per strizzare l'occhio allo spettatore disinteressandosi di regia, messinscena, del cinema insomma. E spesso girati in modo cialtronesco, come il film di Jacobson dimostra, senza alcuna idea di cinema, a differenza degli originali. E allora fatevi un favore: vedetevi l'esilarante Piranha di Aja. O meglio, recuperate lo yakuza-horror-cyber Yakuza Weapon di Sakaguchi e Yamaguchi, e assaporatene il vero amore per la materia filmica e per i suoi trascorsi.

Le Volpi Forza 5 del cinema di serie B
Tura Satana: nome d'arte di Tura Luna Pascual Yamaguchi, mix etnico di esplosiva sensualità, viso raffinato e corpo da rivista porno. Ma oltre al sesso, vita e carriera s'incentrano sulla violenza, tra il karate e l'arma da fuoco: la sua mitica Varla nel film di Meyer è un colpo al cuore per ogni feticista, seduce uomini e donne, spara, rapina e travolge con l'auto chinque, persino un paralitico. Come si fa a non innamorarsene?

Pam Grier: anche più di Satana, vera icona della sexploitation. O meglio della Blaxploitation, il filone adattato ai gusti afroamericani. E Pam è una nera dal fisico sinuoso e indimenticabile, ma anche con un carisma e un talento recitativo che raramente attrici del genere hanno. Diventata immortale con Coffy e Foxy Brown, torna alla ribalta con Fuga da Los Angeles e soprattutto Jackie Brown: è di nuovo amore.

Francesca Kitten Natividad: altra icona, oltre che compagna, di Russ Meyer è la più dolce delle dive della sexploitation: volto simpatico e cartoonesco, fisico morbidissimo dall'enorme seno materno, Kitten diventa famosa grazie al geniale Beneathe the Valey of Ultravixens, in cui balla per il suo uomo quasi impotente armata di un calzino e un uovo. Uno degli apici del cinema meyeriano. E della sua carriera.

Laura Gemser: splendida attrice di origine indonesiana, molto meno popputa delle sue colleghe, deve la sua fama alla serie Emanuelle nera che rivedeva in chiave softcore e casareccia (dirigevano D'Amato o Albertini) del celebre romanzo erotico di Arsan. La sua sensualità raffinata e il suo impegno “proto-femminista” ne hanno fatto un'attrice che ha resistito al tempo grazie a film come Emanuelle: perché violenza alle donne?

Edwige Fenech: se non la più bella donna del cinema italiano, sicuramente il seno più bello e l'attrice più vivace di quel cinema anni '70 nostrano che spesso era pura goliardia. Portata per la commedia sexy (irresistibile in Taxi Girl), con puntate efficaci nel thriller (Lo strano vizio della signora Wardh), ha dato il meglio del suo “talento” nel celeberrimo Alle dame del castello piace molto fare quello o nel censuratissimo Top Sensation.
(pubblicato su The Cinema Show n°11)