martedì 22 maggio 2012

Game of Thrones, il commento a The Prince of Winterfell | Il blog di ScreenWeek.it

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Charlie Kaufman scrive e dirige una serie per HBO | Il blog di ScreenWeek.it

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Breaking Bad e Hell on Wheels, ecco le date delle premiére | Il blog di ScreenWeek.it

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Bizzarro Cinema - Margin Call

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Bizzarro Cinema - Special Forces - Liberate l'ostaggio

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Bizzarro Cinema - Another Earth

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Tim Burton: le ombre della soap-opera

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Finale / Justified (sea. 3) | Point Blank

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sabato 5 maggio 2012

Boardwalk Empire


Dirige un solo episodio, il caro Martin, eppure segna l'intera serie. Cosa c'è di più scorsesiano dell'Atlantic City anni '20, del proibizionismo, del gioco d'azzardo (ricordate il sottovalutato Colore dei soldi?) della politica collusa con la mafia mentre la polizia si barcamena tra fanatismi religiosi e connivenze? Boardwalk Empire è il nuovo e vecchio Scorsese, è Mean Streets o Quei bravi ragazzi visto dall'occhio lussuoso del nuovo tycoon di Hollywood, che con Hugo Cabret ha (ri)scoperto il passato del cinema.
Scorsese dirige il pilot di Terence Winter (tra gli autori dei Soprano) e produce gli episodi delle due stagioni finora trasmesse, dando l'imprinting a una serie molto facilmente definibile come l'evento televisivo degli ultimi due anni (non a caso, firma HBO e in Italia va in onda su Sky Cinema): si raccontano le vicende di Nucky Thompson, tesoriere della città, più potente del sindaco anche perché titolare del contrabbando degli alcoolici negli USA degli anni '20, quelli ruggenti che se ne fregavano della crisi economica. E si racconta anche la parabola morale di un paese che non avendo storia si è dovuto costruire sul sangue, sulla violenza, sul crimine e sul sopruso, su un'idea di economia che appoggia il far west più che il libero mercato, il banditismo più che la concorrenza. A guardarlo bene, anche per contiguità temporale, Boardwalk Empire pare il seguito di Gangs of New York: meno barbaro, più curato e truccato, in giacca e cravatta. Ma ugualmente feroce.  

(Pubblicato su Il mucchio)

Black Mirror


I pixel sono i nostri nuovi occhi. La scopofilia insita nel genere umano oggi si chiama sharing. Lo scintillante specchio nero, lo schermo tv, computer o smartphone che ti fissa da ogni muro, tavolo corpo.
Dalla domanda “se la tecnologia è una droga, quali sono i suoi effetti collaterali?”, Charlie Brooker ha creato Black Mirror, miniserie in tre puntate trasmessa dal britannico Channel 4. Une delle cose migliori che degli ultimi anni, e se qualcuno ha già visto il precedente lavoro di Brooker, Dead Set (ossia, George Romero incontra il Grande fratello), può fidarsi sulla parola.
Ogni episodio racconta una storia diversa, come tre mini-film indipendenti tra loro: The National Anthem vede il primo ministro di fronte a un dilemma folle, se salvare o no la principessa rapita da terroristi facendo sesso in diretta con un maiale; 15 Million Merits è ambientato in una società distopica in cui l'umanità, divisa tra magri e grassi, è chiusa in una palestra dove pedala per accumulare denaro e vedere obbligatoriamente programmi tv; The Entire History of You vede invece i protagonisti intenti a gestire le conseguenze di un impianto che trasforma i ricordi in un hard disk. Tre apologhi, parabole scritte da Brooker con Konnie Hug e Jesse Armstrong, tre capolavori in cui più che dimostrare una tesi, come capita a un certo tipo di fantascienza, si racconta il nostro mondo attraverso il filtro del futuro.
Il trittico affrescato da Brooker sviluppa come una sorta di saga – ed è forse questo il vero filo rosso segreto che lega gli episodi – il passaggio da un mondo che usa e vive la tecnologia a un mondo che ne è vissuto, dalle possibilità attive a quelle passive dell'evoluzione cibernetica, dal mondo come comunità (community, per meglio dire) al mondo come prigione. E lo fa andando a fondo dei nodi di ogni singola questione, dipingendo una realtà che, cyberpunkianamente, ha abdicato sé stessa all'elettronica, alla rivoluzione tecnologica, lasciando il posto a Youtube, che sostituisce la tv e si diffonde endemicamente sfruttando la perversione visiva dell'essere umano, allo spettacolo della televisione interattiva, all'incubo del “tutti possono essere qualcuno”, all'azzeramento della memoria in favore dell'immagine audio-visiva (per questo un prodotto del genere, così teorico soprattutto nel terzo episodio, ha come unica destinazione lo schermo di casa più che il cinema).
Nell'emergere di una dittatura sotterranea e beffarda, più complessa dei semplici pericoli della tecnologia cattiva o del troppo progresso, perché ne implica l'utilizzo e quindi l'origine umana (come è evidente dai giudici del talent-show Hot Shot, tra cui Rupert Everett), Black Mirror descrive il conflitto tra chi “collabora” col tiranno e chi cerca di ribellarsi, in una civiltà in cui l'unica forma di partigianeria è non guardare più: ci provano gli spettatori dell'osceno accoppiamento del premier – che ricorda mostruosità filmiche come A Serbian Film o The Human Centipede, seppure non esplicito –, ci prova Bing, costretto alla pay-per-non-view per portare avanti una delle più dolci storie d'amore degli ultimi tempi, ci prova Liam, i cui ricordi registrati gli distruggono vita e matrimonio.
Ma Brooker sa scartare le ingenuità e le semplificazioni “hollywoodiane” per una visione lucida, agghiacciante (come il rapporto nel terzo episodio), che lascia il segno senza lasciare speranze. Un pessimismo nichilista che si apre nell'ultima scena dell'ultimo episodio e che viene riscattato durante le tre ore di visione da una varietà e ricerca stilistica impressionante, che va dal political-drama teso e brillante al romanticismo disperato fino alla versione Bergman 2.0 con cui si chiude il trittico. Sarà arduo vederlo in Italia, come l' enorme Red Riding (pure in tre parti). Ma internet esiste anche per questo.

3 serie simili da consigliare:
Red Riding Trilogy, Dead Set, The Net

3 artisti per la colonna sonora:
Daft Punk, Sigur Ros, Battles

(Pubblicato su Il mucchio)

Theo Angelopoulos

L'uomo che filmò il tempo

Morire prima del tempo, investito da un motociclista anziché spento dalla vecchiaia. La morte di Theodoros Angelopoulos il 24 gennaio è un paradosso per un regista che il tempo, il suo scorrere e il suo restare, ha sempre saputo catturarlo.
Theo è morto all'età di 77 anni nel Pireo, nel cuore di quella Grecia che l'ha cresciuto e che l'ha formato nel bene e nel male, culturalmente, artisticamente e politicamente. Quella Grecia che dai colonnelli al fallimento economico ha visto sempre sull'orlo o dentro il baratro. Il suo film d'esordio, Ricostruzione di un delitto fa notare subito come il suo cinema poetico e politico era fatto per incidere sulla realtà e sul mondo attraverso i mezzi della settima arte, il linguaggio puro: l'intreccio tra Kurosawa e Otto Preminger si forma sotto una visione del cinema severa, difficile eppure incredibilmente affascinante.
E se ogni visione del cinema è una visione del mondo, quella di Angelopoulos è epica, in senso omerico e brechtiano: I giorni del '36 vede la dittatura che si avvicina, la nascita del fascismo greco, attraverso il teatro, il quale diventa metafora totale nella Recita, il suo capolavoro del '75, in cui un gruppo di attori vaga nello spazio della Grecia militarizzata e nel tempo della sua storia senza più cuore, punti fermi di riferimento.
Da quel momento, Angelopoulos è diventato il cineasta del tempo, della durata, dell'inesorabile eppure infinito movimento del cosmo, portando il piano sequenza allo stato dell'arte. Alti e bassi, capolavori e manierismi, ma anche la capacità di plasmare il mondo – non solo una sua porzione – attraverso lo sguardo: di Ulisse, come quello che gli fece vincere il gran premio della giuria di Cannes nel '95, tre anni prima della Palma d'oro per L'eternità e un giorno, odissee che lo portarono in Europa, dentro l'Europa, lasciando una trilogia incompiuta, antica eppure densissima di futuri: La sorgente del fiume e La polvere del tempo sono il testamento doloroso di un uomo che ha guardato al futuro non come un'incognita, ma come una fuggevole consapevolezza. Come i “tre minuti” di Chacun son cinéma con cui si è idealmente ricongiunto a Mastroianni e Antonioni, volando assieme a loro.  

(Pubblicata su The Cinema Show)

Psych


E’ dura la vita dei poliziotti nelle serie gialle, ossia quelle dove conta più chi ha commesso il delitto che come è stato commesso (dalla Signora in giallo fino a Monk). Di solito sono dei bonari incompetenti che hanno bisogno di un consulente esterno di solito geniale, come lo scrittore di gialli in Castle, o paranormali come la medium in - guarda caso - Medium, il quale risolve sempre da solo, più o meno, i casi.
Shawn Spencer è un consulente un po’ sui generis, dato che cerca di mescolare le varie caratteristiche dei consulenti: è un geniaccio dalla memoria visiva prodigiosa, ma siccome nessuno gli crede fa prima a fingersi sensitivo e a mettere su un’agenzia investigativa col sodale - non proprio un fulmine di guerra - Gus. E insieme riescono, non senza difficoltà, a entrare nelle grazie della polizia, che non esita a chiamarli per risolvere casi inusuali, spesso bislacchi. Ed è proprio il tono dei casi e quello con cui gli investigatori li risolvono a segnare Psych, serie tra commedia e crime creata nel 2006 da Steve Franks per la rete via cavo USA Network, giunta in America alla sesta stagione. La stessa che arriva in Italia dal 6 gennaio su Joi proprio mentre Rete 4 sta concludendo la quinta, che contiene il gioiellino Una cittadina vecchio stampo, che omaggia Twin Peaks nel ventennale della nascita recuperando molti degli attori originali del cast.
Oltre alla rilettura in chiave spesso comica del classico whodunit (chi è stato?), con tanto di indizi da ricordare e finali mozzafiato, Psych si segnala per la costante sete di citazioni che punteggia i suoi episodi: il primo episodio della nuova stagione, dall’eloquente titolo originale Shawn Rescues Darth Vader è centrato sul recupero di una statuetta del cattivo per eccellenza di Star Wars, per proseguire con omaggi e riferimenti a Indiana Jones (Indiana Shawn and the Temple of the Kinda Crappy, Rusty Old Sword), Buffy l’ammazzavampiri (This Episode Sucks, con la partecipazione di Kristy Swanson, la Buffy della prima versione cinematografica) fino a Shining (Heeeeere’s Lassie). E anche le guest-star non smentiscono l’impressione di una serie per cinefili, possibilmente anche un po’ nerd, seguendo la tendenza che ha reso The Big Bang Theory e Chuck dei successi.
Dal Malcolm McDowell di Arancia Meccanica a Cary Elwes (Robin Hood - Un uomo in calzamaglia), dall’ex-Brandon Walsh Jason Priestley a Danny Glover. Ospiti che sono sintomo di un successo continuo, che ha reso USA Network la prima basic cable in America, grazie anche a serie spassose come Duro a morire e White Collar. Ma oltre ai riferimenti per appassionati, quello che rende divertente, se non interessante, la serie è la struttura che ne fa una specie di parodia di Dexter dalla parte dei buoni: come l’ematologo serial killer, anche Shawn ha un rapporto curioso col padre - col quale si ricongiunge faticosamente durante il corso della prima stagione - che nei flashback con cui si apre ogni episodio gli insegna il proprio codice, molto diverso da quello dei Morgan, essendo Mr.Spencer un poliziotto.
E in ogni episodio, un tassello del “codice” di Shawn va a suo posto, lasciando spazio a quello che è un vero e proprio buddy-show, con i duetti tra Gus (interpretato da Dulé Hill, memorabile Charlie Young in The West Wing) e Shawn (James Roday, che scrive e dirige molti episodi della serie) a dare il giusto pepe a un giallo abbastanza tradizionale, reso curioso solo dal tocco bizzarro di alcuni casi.
E’ chiaro però che chi segue la serie non cerca trame appassionanti, suspense e via dicendo, ma semplicemente un’ora di risate e intrattenimento: e Franks garantisce il tutto grazie a script briosi e un cast efficacissimo, tra cui vanno citati i comprimari della squadra di polizia, come Timothy Omundson, alias l’ineffabile Lassiter, oppure il granitico Corbin Bernsen, il burbero padre di Shawn. Ingredienti per una serie che non cambierà le vostre vite, ma di sicuro può renderle più serene. Dal 6 gennaio provare per credere.

 (Pubblicato su The Cinema Show)

Misfits 1^ stagione


Si fa presto a dire supereroi. Soprattutto in tv, dove se bisogna pensare a Smallville o Heroes si diventa tristi. Eppure qualcuno c'è riuscito, in Gran Bretagna. Si tratta di Howard Overman che due anni fa ha creato Misfits, la più destabilizzante (rivoluzionaria è un aggettivo abusato per le serie tv) serie supereroica di sempre, trasmessa da Channel 4 e ora in dvd e BD con la prima stagione.
Forse destabilizza il fatto che i protagonisti, investiti da un temporale magnetico che dà loro incredibili poteri, siano cinque disadattati, come dice il titolo, piccoli criminali assegnati ai servizi sociali che all'improvviso possono tornare indietro nel tempo, diventare invisibili, leggere il pensiero, o non morire mai. E lungi da loro l'idea di fare del bene: meglio approfittarne, finché si può.
Overman rilegge, a tratti ribalta, l'epica del comic book con humour cinico e volgare, trovate geniali e personaggi curiosi e profondi, a loro modo, attori efficacissimi come gli irresistibili Robert Sheehan e Lauren Socha (vincitrice di un BAFTA). Per non parlare di una messinscena che sa farsi forza del bassissimo budget – praticamente un solo set –, per reinventare il comune modo di vedere gli uomini coi superpoteri. Che non indossano mantelli e calzamaglie, ma umilianti divise arancione fluo.

Prezzo: 2 DVD 15,99€; 2BD 22,99€
Distribuzione: Medusa Video
Durata: 6 episodi da 60' circa (totale: 350' circa)

(Pubblicato su Il mucchio)

2 Broke Girls


In tempi in cui chiunque e da qualunque pulpito parla di crisi, vengono in mente sacrosante parole pronunciate da Lillo & Greg in Figlio mio, ovvero dritte per svoltare: “C'è la crisi, c'è la crisi, ma tutti hanno per lo meno due macchine”. O due cameriere, come nel caso del diner – quei ristoranti molto cheap che sono più americani della Statua della Libertà – in cui è ambientato 2 Broke Girls, la nuova serie CBS creata da niente meno che dal Michael Patrick King di Sex & The City e dalla stand-up comedian Whitney Cummings, protagonista e autrice di un'altra sitcom del momento, l'omonima Whitney di NBC.
Le 2 ragazze al verde del titolo sono Kat Dennings, giovane bomba sexy vagamente punkeggiante (la ricercatrice di Thor o la Susan di Charlie Bartlett), e Beth Behrs, biondina più ossuta di Barbie, ossia Max e Caroline, cameriere che si conoscono per una circostanza sfortunata: Caroline deve trovarsi un lavoro dopo che il ricchissimo padre è finito in galera per una truffa piramidale e Max, oltre a ospitarla, deve insegnarle a vivere il passaggio dalla ricchezza di Manhattan alla povertà di Brooklyn, come dire da Gossip Girl a Shameless. Ma ovviamente nessuno è maestro e nella vita, specie senza un soldo in tasca, siamo tutti allievi.
Lo spunto di partenza ricorda, oltre a molti altri, quello imbarazzante di Material Girls, indecente filmetto delle sorelle Duff, ma grazie al cielo si va a parare da altri parti, quelle di una situation comedy più tradizionale, con tanto di risate fuori campo, che prova a raccontare in modi più o meno contemporanei il lato ilare della crisi economica. A essere sinceri è poco meno di un pretesto, visto che non è una bancarotta a scatenare l'incontro ma uno schema Ponzi, un reato comune in America da ben prima del crollo delle banche; ma poco importa perché l'obiettivo della serie è quello di raccontare il contesto sociale della povertà, dandogli precise coordinate geografiche – almeno limitate a New York – e culturali, con lo scontro tra Max e i ragazzi hipsters che si fingono poveri nell'aspetto.
King e Cummings descrivono tutta una serie di barriere, limiti sociali ed economici, che i personaggi cercano di sondare e di infrangere finendo però per finirci contro: ricchi contro poveri, bianchi contro latino-americani, fighetti contro proletari. Ma poi alla fine è Max, l'unica brillante in un mondo di idioti o di sprovveduti, contro tutti: la cameriera russa sessualmente disinibita che viene licenziata per assumere Caroline, il cuoco anche russo sempre pronto a provarci, il direttore scemo che non conosce la lingua (pensate un po? E' coreano), l'ex-ragazzo oltre la soglia di cretineria, ma pronto a possedere anche una lavastoviglie e così via per ogni personaggio che incontra, Caroline compresa con cui sembra sul punto di chiudere alla fine di ogni episodio, e invece no.
Il luogo comune e il cliché vagamente razzista regnano sovrani, ma della scorrettezza politica e della travolgente forza comica di It's Always Sunny in Philadelphia non c'è che il ricordo: in 2 Broke Girls c'è tutto quello che pensavamo sepolto con le vecchie sitcom, ravvivato – secondo gli autori – con la scatologia e l'umorismo volgare. Prendete Laverne & Shirley, lo spin-off di Happy Days con due amiche operaie in una fabbrica di birra, ma soprattutto Alice, sitcom in cui le protagoniste cercavano di barcamenarsi tra le difficoltà della vita quotidiana lavorando come cameriere in un diner, appunto: prendetele e aggiungeteci la cacca di cavallo, che pare il leit-motiv comico, visto che la bizzarria delle protagoniste è di avere un cavallo nel giardino, al posto di un cane o un gatto.
Lo show è tutto qui, tra battute che sembrano uscite dai momenti peggiori di Samantha – quando in Sex & The City 2 sbraitava parolacce come un De Sica ad Abu Dhabi – e personaggi futili, (vogliamo parlare di Earl, vecchio dj nero che sembra una macchietta dei Jefferson?). Soffocando l'opportunità di parlare dei paradossi del “default” e della povertà (lo hanno fatto anche i Muppet, per spiegarla ai bambini), sprecando idee gustose come quella del sapore delle patatine indice di miseria, disperdendo il talento e la sensualità a stento trattenuta dall'uniforme di Kat Dennings, vero peccato mortale dello show. Che se non fosse per i richiami bambineschi e ossessivi a sesso ed escrementi sarebbe già pronto per il pre-serale di Italia 1.

(Pubblicato su The Cinema Show)  

Shameless

Brutti, sporchi e in fondo tenerissimi

La famiglia in tv è sempre stata lo specchio di tutte le più perverse fantasie perbeniste: casa grande, pulitissima e possibilmente a due piani, un sacco di figli – ché come dicevano i Monty Python “Every sperm is sacred” –, fasulle felicità fatte di sorrisi imbalsamati e battutine stantie e metodi educativi lontani anni luce da Maria Montessori. Un incubo di quelli che ti lasciano sul lettino dello psicoanalista per anni, su cui si è formato l'inquietante immaginario che faceva da sfondo a Pleasantville, delizioso film di Gary Ross datato '98.
Un immaginario che ha nomi ben precisi: Leave It to Beaver e The Brady Bunch, di cui solo il secondo in onda in Italia come La famiglia Brady, colpevoli di aver tolto dalla famiglia – e dalla sitcom in generale – ogni accenno di problema, di inquietudine, facendo credere al mondo che la famiglia fosse un asettico idillio. E poi per fortuna arrivano i primi colpi, all'inizio animati (come I Simpson, I Grififn o South Park) e poi via via sempre più in carne e ossa, deflagrando nel 2004, quando l'esimio Paul Abbott – autore di punta della tv britannica con prodotto come Cracker e State of Play – crea Shameless, letteralmente “senza vergogna”, che mette in scena, e continua a farlo tutt'ora, una famiglia che ridefinisce il significato di disfunzionale, con un padre ubriaco perso, figli dai mille problemi psico-sociali, vicini ninfomani e tutte le forme di disprezzo possibili per le istituzioni. Successo assicurato e valanghe di premi vinti.
Perchè non ne avrebbero dovuto approfittare dagli USA? E così è stato: il 9 gennaio 2011 Showtime licenzia il remake americano di Shameless. La vera sorpresa è che il remake funziona. Anzi, è anche meglio dell'originale. Sviluppato dallo stesso Abbot col supporto di uno dei colossi della tv statunitense John Wells (E.R.-Medici in prima linea, The West Wing), lo show racconta della famiglia Gallagher e soprattutto dei suoi due pilastri: il padre Frank, ebbro in quanto tale, talmente bisognoso di alcool e affetto da farsi sodomizzare da un'agorafobica in cambio di buon cibo, amore e spirito (in tutti i sensi), e Fiona, la figlia maggiore, l'unica in grado ma anche costretta a tenere la testa sulle spalle per gestire una famiglia fatta di altri quattro fratelli, dalle differenti difficoltà di apprendimento, di relazione, o di semplice rispetto per l'autorità parentale.
In questo marasma di urla e chiazze di vomito, gente sdraiata sul pavimento e incapacità di comunicare, di amori rifiutati, imposti, mai compresi eppure onnipresenti – come i vicini e amici che trovano ogni luogo e occasione per fare sesso, soprattutto a casa Gallagher – spunta il fiore che rende questo remake, caso raro specie nel confronto Usa/Gran Bretagna, migliore dell'originale: Shameless U.S., con le sue 12 puntate rinnovate già per la seconda stagione, sa trovare il perfetto equilibrio tra la scorrettezza sociale, lo stravolgimento del bon ton della famiglia televisiva e il respiro di un racconto dove al posto dei “buoni sentimenti” ci sono i sentimenti, nudi e crudi, che non ricattano lo spettatore, ma lo coinvolgono, che rimpiazzano il cinismo sterile della versione inglese con una capacità narrativa e di descrizione dei personaggi meglio rodata.
E merito principale, al fianco degli egregi sceneggiatori, va al cast, composito e scintillante: già la sola presenza di William H.Macy illuminerebbe qualunque prodotto, ma la definizione del suo Frank è incredibile, trasuda squallore e amore da ogni poro, intreccia abiezione e voglia di riscatta con una finezza e un'ironia straordinarie, ma meritano considerazione la bella Emmy Rossum, che riscatta i bamboleggiamenti della sua Christine nel Fantasma dell'opera di Schumacher, e un'indimenticabile Joan Cusack, tenerissima e inquietante Sheila Jackson, donna che ha paura nell'uscire di casa, meno nell'usare enormi falli di gomma coi suoi uomini. Una triade che tra ripugnanza e gioia ha saputo trovare il cuore dello spettatore.

(Pubblicato su The Cinema Show)