Dirige un solo episodio,
il caro Martin, eppure segna l'intera serie. Cosa c'è di più
scorsesiano dell'Atlantic City anni '20, del proibizionismo, del
gioco d'azzardo (ricordate il sottovalutato Colore dei soldi?) della
politica collusa con la mafia mentre la polizia si barcamena tra
fanatismi religiosi e connivenze? Boardwalk Empire è il nuovo e
vecchio Scorsese, è Mean Streets o Quei bravi ragazzi visto
dall'occhio lussuoso del nuovo tycoon di Hollywood, che con Hugo
Cabret ha (ri)scoperto il passato del cinema.
Scorsese dirige il pilot
di Terence Winter (tra gli autori dei Soprano) e produce gli episodi
delle due stagioni finora trasmesse, dando l'imprinting a una serie
molto facilmente definibile come l'evento televisivo degli ultimi due
anni (non a caso, firma HBO e in Italia va in onda su Sky Cinema): si
raccontano le vicende di Nucky Thompson, tesoriere della città, più
potente del sindaco anche perché titolare del contrabbando degli
alcoolici negli USA degli anni '20, quelli ruggenti che se ne
fregavano della crisi economica. E si racconta anche la parabola
morale di un paese che non avendo storia si è dovuto costruire sul
sangue, sulla violenza, sul crimine e sul sopruso, su un'idea di
economia che appoggia il far west più che il libero mercato, il
banditismo più che la concorrenza. A guardarlo bene, anche per
contiguità temporale, Boardwalk Empire pare il seguito di Gangs of
New York: meno barbaro, più curato e truccato, in giacca e cravatta.
Ma ugualmente feroce.
(Pubblicato su Il mucchio)
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