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lunedì 21 maggio 2012
sabato 19 maggio 2012
giovedì 17 maggio 2012
sabato 5 maggio 2012
Boardwalk Empire
Dirige un solo episodio,
il caro Martin, eppure segna l'intera serie. Cosa c'è di più
scorsesiano dell'Atlantic City anni '20, del proibizionismo, del
gioco d'azzardo (ricordate il sottovalutato Colore dei soldi?) della
politica collusa con la mafia mentre la polizia si barcamena tra
fanatismi religiosi e connivenze? Boardwalk Empire è il nuovo e
vecchio Scorsese, è Mean Streets o Quei bravi ragazzi visto
dall'occhio lussuoso del nuovo tycoon di Hollywood, che con Hugo
Cabret ha (ri)scoperto il passato del cinema.
Scorsese dirige il pilot
di Terence Winter (tra gli autori dei Soprano) e produce gli episodi
delle due stagioni finora trasmesse, dando l'imprinting a una serie
molto facilmente definibile come l'evento televisivo degli ultimi due
anni (non a caso, firma HBO e in Italia va in onda su Sky Cinema): si
raccontano le vicende di Nucky Thompson, tesoriere della città, più
potente del sindaco anche perché titolare del contrabbando degli
alcoolici negli USA degli anni '20, quelli ruggenti che se ne
fregavano della crisi economica. E si racconta anche la parabola
morale di un paese che non avendo storia si è dovuto costruire sul
sangue, sulla violenza, sul crimine e sul sopruso, su un'idea di
economia che appoggia il far west più che il libero mercato, il
banditismo più che la concorrenza. A guardarlo bene, anche per
contiguità temporale, Boardwalk Empire pare il seguito di Gangs of
New York: meno barbaro, più curato e truccato, in giacca e cravatta.
Ma ugualmente feroce.
(Pubblicato su Il mucchio)
Black Mirror
I pixel sono i nostri
nuovi occhi. La scopofilia insita nel genere umano oggi si chiama
sharing. Lo scintillante specchio nero, lo schermo tv, computer o
smartphone che ti fissa da ogni muro, tavolo corpo.
Dalla domanda “se la
tecnologia è una droga, quali sono i suoi effetti collaterali?”,
Charlie Brooker ha creato Black Mirror, miniserie in tre puntate
trasmessa dal britannico Channel 4. Une delle cose migliori che degli
ultimi anni, e se qualcuno ha già visto il precedente lavoro di
Brooker, Dead Set (ossia, George Romero incontra il Grande fratello),
può fidarsi sulla parola.
Ogni episodio racconta
una storia diversa, come tre mini-film indipendenti tra loro: The
National Anthem vede il primo ministro di fronte a un dilemma folle,
se salvare o no la principessa rapita da terroristi facendo sesso in
diretta con un maiale; 15 Million Merits è ambientato in una società
distopica in cui l'umanità, divisa tra magri e grassi, è chiusa in
una palestra dove pedala per accumulare denaro e vedere
obbligatoriamente programmi tv; The Entire History of You vede invece
i protagonisti intenti a gestire le conseguenze di un impianto che
trasforma i ricordi in un hard disk. Tre apologhi, parabole scritte
da Brooker con Konnie Hug e Jesse Armstrong, tre capolavori in cui
più che dimostrare una tesi, come capita a un certo tipo di
fantascienza, si racconta il nostro mondo attraverso il filtro del
futuro.
Il trittico affrescato da
Brooker sviluppa come una sorta di saga – ed è forse questo il
vero filo rosso segreto che lega gli episodi – il passaggio da un
mondo che usa e vive la tecnologia a un mondo che ne è vissuto,
dalle possibilità attive a quelle passive dell'evoluzione
cibernetica, dal mondo come comunità (community, per meglio dire) al
mondo come prigione. E lo fa andando a fondo dei nodi di ogni singola
questione, dipingendo una realtà che, cyberpunkianamente, ha
abdicato sé stessa all'elettronica, alla rivoluzione tecnologica,
lasciando il posto a Youtube, che sostituisce la tv e si diffonde
endemicamente sfruttando la perversione visiva dell'essere umano,
allo spettacolo della televisione interattiva, all'incubo del “tutti
possono essere qualcuno”, all'azzeramento della memoria in favore
dell'immagine audio-visiva (per questo un prodotto del genere, così
teorico soprattutto nel terzo episodio, ha come unica destinazione lo
schermo di casa più che il cinema).
Nell'emergere di una
dittatura sotterranea e beffarda, più complessa dei semplici
pericoli della tecnologia cattiva o del troppo progresso, perché ne
implica l'utilizzo e quindi l'origine umana (come è evidente dai
giudici del talent-show Hot Shot, tra cui Rupert Everett), Black
Mirror descrive il conflitto tra chi “collabora” col tiranno e
chi cerca di ribellarsi, in una civiltà in cui l'unica forma di
partigianeria è non guardare più: ci provano gli spettatori
dell'osceno accoppiamento del premier – che ricorda mostruosità
filmiche come A Serbian Film o The Human Centipede, seppure non
esplicito –, ci prova Bing, costretto alla pay-per-non-view per
portare avanti una delle più dolci storie d'amore degli ultimi
tempi, ci prova Liam, i cui ricordi registrati gli distruggono vita
e matrimonio.
Ma Brooker sa scartare le
ingenuità e le semplificazioni “hollywoodiane” per una visione
lucida, agghiacciante (come il rapporto nel terzo episodio), che
lascia il segno senza lasciare speranze. Un pessimismo nichilista che
si apre nell'ultima scena dell'ultimo episodio e che viene riscattato
durante le tre ore di visione da una varietà e ricerca stilistica
impressionante, che va dal political-drama teso e brillante al
romanticismo disperato fino alla versione Bergman 2.0 con cui si
chiude il trittico. Sarà arduo vederlo in Italia, come l' enorme Red
Riding (pure in tre parti). Ma internet esiste anche per questo.
3 serie simili da
consigliare:
Red Riding Trilogy, Dead
Set, The Net
3 artisti per la colonna
sonora:
Daft Punk, Sigur Ros,
Battles
(Pubblicato su Il mucchio)
Theo Angelopoulos
L'uomo che filmò il tempo

Theo è morto all'età di
77 anni nel Pireo, nel cuore di quella Grecia che l'ha cresciuto e
che l'ha formato nel bene e nel male, culturalmente, artisticamente e
politicamente. Quella Grecia che dai colonnelli al fallimento
economico ha visto sempre sull'orlo o dentro il baratro. Il suo film
d'esordio, Ricostruzione di un delitto fa notare subito come il suo
cinema poetico e politico era fatto per incidere sulla realtà e sul
mondo attraverso i mezzi della settima arte, il linguaggio puro:
l'intreccio tra Kurosawa e Otto Preminger si forma sotto una visione
del cinema severa, difficile eppure incredibilmente affascinante.
E se ogni visione del
cinema è una visione del mondo, quella di Angelopoulos è epica, in
senso omerico e brechtiano: I giorni del '36 vede la dittatura che si
avvicina, la nascita del fascismo greco, attraverso il teatro, il
quale diventa metafora totale nella Recita, il suo capolavoro del
'75, in cui un gruppo di attori vaga nello spazio della Grecia
militarizzata e nel tempo della sua storia senza più cuore, punti
fermi di riferimento.
Da quel momento,
Angelopoulos è diventato il cineasta del tempo, della durata,
dell'inesorabile eppure infinito movimento del cosmo, portando il
piano sequenza allo stato dell'arte. Alti e bassi, capolavori e
manierismi, ma anche la capacità di plasmare il mondo – non solo
una sua porzione – attraverso lo sguardo: di Ulisse, come quello
che gli fece vincere il gran premio della giuria di Cannes nel '95,
tre anni prima della Palma d'oro per L'eternità e un giorno, odissee
che lo portarono in Europa, dentro l'Europa, lasciando una trilogia
incompiuta, antica eppure densissima di futuri: La sorgente del fiume
e La polvere del tempo sono il testamento doloroso di un uomo che ha
guardato al futuro non come un'incognita, ma come una fuggevole
consapevolezza. Come i “tre minuti” di Chacun son cinéma con cui
si è idealmente ricongiunto a Mastroianni e Antonioni, volando
assieme a loro.
(Pubblicata su The Cinema Show)
Psych
E’ dura la vita dei poliziotti nelle serie gialle, ossia quelle
dove conta più chi ha commesso il delitto che come è stato commesso
(dalla Signora in giallo fino a Monk). Di solito sono dei bonari
incompetenti che hanno bisogno di un consulente esterno di solito
geniale, come lo scrittore di gialli in Castle, o paranormali come la
medium in - guarda caso - Medium, il quale risolve sempre da solo,
più o meno, i casi.
Shawn Spencer è un consulente un po’ sui generis, dato che cerca
di mescolare le varie caratteristiche dei consulenti: è un geniaccio
dalla memoria visiva prodigiosa, ma siccome nessuno gli crede fa
prima a fingersi sensitivo e a mettere su un’agenzia investigativa
col sodale - non proprio un fulmine di guerra - Gus. E insieme
riescono, non senza difficoltà, a entrare nelle grazie della
polizia, che non esita a chiamarli per risolvere casi inusuali,
spesso bislacchi. Ed è proprio il tono dei casi e quello con cui gli
investigatori li risolvono a segnare Psych, serie tra commedia e
crime creata nel 2006 da Steve Franks per la rete via cavo USA
Network, giunta in America alla sesta stagione. La stessa che arriva
in Italia dal 6 gennaio su Joi proprio mentre Rete 4 sta concludendo
la quinta, che contiene il gioiellino Una cittadina vecchio stampo,
che omaggia Twin Peaks nel ventennale della nascita recuperando molti
degli attori originali del cast.
Oltre alla rilettura in chiave spesso comica del classico whodunit
(chi è stato?), con tanto di indizi da ricordare e finali
mozzafiato, Psych si segnala per la costante sete di citazioni che
punteggia i suoi episodi: il primo episodio della nuova stagione,
dall’eloquente titolo originale Shawn Rescues Darth Vader è
centrato sul recupero di una statuetta del cattivo per eccellenza di
Star Wars, per proseguire con omaggi e riferimenti a Indiana Jones
(Indiana Shawn and the Temple of the Kinda Crappy, Rusty Old Sword),
Buffy l’ammazzavampiri (This Episode Sucks, con la partecipazione
di Kristy Swanson, la Buffy della prima versione cinematografica)
fino a Shining (Heeeeere’s Lassie). E anche le guest-star non
smentiscono l’impressione di una serie per cinefili, possibilmente
anche un po’ nerd, seguendo la tendenza che ha reso The Big Bang
Theory e Chuck dei successi.
Dal Malcolm McDowell di Arancia Meccanica a Cary Elwes (Robin Hood -
Un uomo in calzamaglia), dall’ex-Brandon Walsh Jason Priestley a
Danny Glover. Ospiti che sono sintomo di un successo continuo, che ha
reso USA Network la prima basic cable in America, grazie anche a
serie spassose come Duro a morire e White Collar. Ma oltre ai
riferimenti per appassionati, quello che rende divertente, se non
interessante, la serie è la struttura che ne fa una specie di
parodia di Dexter dalla parte dei buoni: come l’ematologo serial
killer, anche Shawn ha un rapporto curioso col padre - col quale si
ricongiunge faticosamente durante il corso della prima stagione - che
nei flashback con cui si apre ogni episodio gli insegna il proprio
codice, molto diverso da quello dei Morgan, essendo Mr.Spencer un
poliziotto.
E in ogni episodio, un tassello del “codice” di Shawn va a suo
posto, lasciando spazio a quello che è un vero e proprio buddy-show,
con i duetti tra Gus (interpretato da Dulé Hill, memorabile Charlie
Young in The West Wing) e Shawn (James Roday, che scrive e dirige
molti episodi della serie) a dare il giusto pepe a un giallo
abbastanza tradizionale, reso curioso solo dal tocco bizzarro di
alcuni casi.
E’ chiaro però che chi segue la serie non cerca trame
appassionanti, suspense e via dicendo, ma semplicemente un’ora di
risate e intrattenimento: e Franks garantisce il tutto grazie a
script briosi e un cast efficacissimo, tra cui vanno citati i
comprimari della squadra di polizia, come Timothy Omundson, alias
l’ineffabile Lassiter, oppure il granitico Corbin Bernsen, il
burbero padre di Shawn. Ingredienti per una serie che non cambierà
le vostre vite, ma di sicuro può renderle più serene. Dal 6 gennaio
provare per credere.
(Pubblicato su The Cinema Show)
Misfits 1^ stagione
Si fa presto a dire
supereroi. Soprattutto in tv, dove se bisogna pensare a Smallville o
Heroes si diventa tristi. Eppure qualcuno c'è riuscito, in Gran
Bretagna. Si tratta di Howard Overman che due anni fa ha creato
Misfits, la più destabilizzante (rivoluzionaria è un aggettivo
abusato per le serie tv) serie supereroica di sempre, trasmessa da
Channel 4 e ora in dvd e BD con la prima stagione.
Forse destabilizza il
fatto che i protagonisti, investiti da un temporale magnetico che dà
loro incredibili poteri, siano cinque disadattati, come dice il
titolo, piccoli criminali assegnati ai servizi sociali che
all'improvviso possono tornare indietro nel tempo, diventare
invisibili, leggere il pensiero, o non morire mai. E lungi da loro
l'idea di fare del bene: meglio approfittarne, finché si può.
Overman rilegge, a tratti
ribalta, l'epica del comic book con humour cinico e volgare, trovate
geniali e personaggi curiosi e profondi, a loro modo, attori
efficacissimi come gli irresistibili Robert Sheehan e Lauren Socha
(vincitrice di un BAFTA). Per non parlare di una messinscena che sa
farsi forza del bassissimo budget – praticamente un solo set –,
per reinventare il comune modo di vedere gli uomini coi superpoteri.
Che non indossano mantelli e calzamaglie, ma umilianti divise
arancione fluo.
Prezzo: 2 DVD 15,99€;
2BD 22,99€
Distribuzione: Medusa
Video
Durata: 6 episodi da 60'
circa (totale: 350' circa)
(Pubblicato su Il mucchio)
2 Broke Girls
In tempi in cui chiunque
e da qualunque pulpito parla di crisi, vengono in mente sacrosante
parole pronunciate da Lillo & Greg in Figlio mio, ovvero dritte
per svoltare: “C'è la crisi, c'è la crisi, ma tutti hanno per lo
meno due macchine”. O due cameriere, come nel caso del diner –
quei ristoranti molto cheap che sono più americani della Statua
della Libertà – in cui è ambientato 2 Broke Girls, la nuova serie
CBS creata da niente meno che dal Michael Patrick King di Sex &
The City e dalla stand-up comedian Whitney Cummings, protagonista e
autrice di un'altra sitcom del momento, l'omonima Whitney di NBC.
Le 2 ragazze al verde del
titolo sono Kat Dennings, giovane bomba sexy vagamente punkeggiante
(la ricercatrice di Thor o la Susan di Charlie Bartlett), e Beth
Behrs, biondina più ossuta di Barbie, ossia Max e Caroline,
cameriere che si conoscono per una circostanza sfortunata: Caroline
deve trovarsi un lavoro dopo che il ricchissimo padre è finito in
galera per una truffa piramidale e Max, oltre a ospitarla, deve
insegnarle a vivere il passaggio dalla ricchezza di Manhattan alla
povertà di Brooklyn, come dire da Gossip Girl a Shameless. Ma
ovviamente nessuno è maestro e nella vita, specie senza un soldo in
tasca, siamo tutti allievi.
Lo spunto di partenza
ricorda, oltre a molti altri, quello imbarazzante di Material Girls,
indecente filmetto delle sorelle Duff, ma grazie al cielo si va a
parare da altri parti, quelle di una situation comedy più
tradizionale, con tanto di risate fuori campo, che prova a raccontare
in modi più o meno contemporanei il lato ilare della crisi
economica. A essere sinceri è poco meno di un pretesto, visto che
non è una bancarotta a scatenare l'incontro ma uno schema Ponzi, un
reato comune in America da ben prima del crollo delle banche; ma poco
importa perché l'obiettivo della serie è quello di raccontare il
contesto sociale della povertà, dandogli precise coordinate
geografiche – almeno limitate a New York – e culturali, con lo
scontro tra Max e i ragazzi hipsters che si fingono poveri
nell'aspetto.
King e Cummings
descrivono tutta una serie di barriere, limiti sociali ed economici,
che i personaggi cercano di sondare e di infrangere finendo però per
finirci contro: ricchi contro poveri, bianchi contro
latino-americani, fighetti contro proletari. Ma poi alla fine è Max,
l'unica brillante in un mondo di idioti o di sprovveduti, contro
tutti: la cameriera russa sessualmente disinibita che viene
licenziata per assumere Caroline, il cuoco anche russo sempre pronto
a provarci, il direttore scemo che non conosce la lingua (pensate un
po? E' coreano), l'ex-ragazzo oltre la soglia di cretineria, ma
pronto a possedere anche una lavastoviglie e così via per ogni
personaggio che incontra, Caroline compresa con cui sembra sul punto
di chiudere alla fine di ogni episodio, e invece no.
Il luogo comune e il
cliché vagamente razzista regnano sovrani, ma della scorrettezza
politica e della travolgente forza comica di It's Always Sunny in
Philadelphia non c'è che il ricordo: in 2 Broke Girls c'è tutto
quello che pensavamo sepolto con le vecchie sitcom, ravvivato –
secondo gli autori – con la scatologia e l'umorismo volgare.
Prendete Laverne & Shirley, lo spin-off di Happy Days con due
amiche operaie in una fabbrica di birra, ma soprattutto Alice, sitcom
in cui le protagoniste cercavano di barcamenarsi tra le difficoltà
della vita quotidiana lavorando come cameriere in un diner, appunto:
prendetele e aggiungeteci la cacca di cavallo, che pare il leit-motiv
comico, visto che la bizzarria delle protagoniste è di avere un
cavallo nel giardino, al posto di un cane o un gatto.
Lo show è tutto qui, tra
battute che sembrano uscite dai momenti peggiori di Samantha –
quando in Sex & The City 2 sbraitava parolacce come un De Sica ad
Abu Dhabi – e personaggi futili, (vogliamo parlare di Earl, vecchio
dj nero che sembra una macchietta dei Jefferson?). Soffocando
l'opportunità di parlare dei paradossi del “default” e della
povertà (lo hanno fatto anche i Muppet, per spiegarla ai bambini),
sprecando idee gustose come quella del sapore delle patatine indice
di miseria, disperdendo il talento e la sensualità a stento
trattenuta dall'uniforme di Kat Dennings, vero peccato mortale dello
show. Che se non fosse per i richiami bambineschi e ossessivi a sesso
ed escrementi sarebbe già pronto per il pre-serale di Italia 1.
(Pubblicato su The Cinema Show)
Shameless
Brutti, sporchi e in fondo
tenerissimi
La famiglia in tv è
sempre stata lo specchio di tutte le più perverse fantasie
perbeniste: casa grande, pulitissima e possibilmente a due piani, un
sacco di figli – ché come dicevano i Monty Python “Every sperm
is sacred” –, fasulle felicità fatte di sorrisi imbalsamati e
battutine stantie e metodi educativi lontani anni luce da Maria
Montessori. Un incubo di quelli che ti lasciano sul lettino dello
psicoanalista per anni, su cui si è formato l'inquietante
immaginario che faceva da sfondo a Pleasantville, delizioso film di
Gary Ross datato '98.
Un immaginario che ha
nomi ben precisi: Leave It to Beaver e The Brady Bunch, di cui solo
il secondo in onda in Italia come La famiglia Brady, colpevoli di
aver tolto dalla famiglia – e dalla sitcom in generale – ogni
accenno di problema, di inquietudine, facendo credere al mondo che la
famiglia fosse un asettico idillio. E poi per fortuna arrivano i
primi colpi, all'inizio animati (come I Simpson, I Grififn o South
Park) e poi via via sempre più in carne e ossa, deflagrando nel
2004, quando l'esimio Paul Abbott – autore di punta della tv
britannica con prodotto come Cracker e State of Play – crea
Shameless, letteralmente “senza vergogna”, che mette in scena, e
continua a farlo tutt'ora, una famiglia che ridefinisce il
significato di disfunzionale, con un padre ubriaco perso, figli dai
mille problemi psico-sociali, vicini ninfomani e tutte le forme di
disprezzo possibili per le istituzioni. Successo assicurato e
valanghe di premi vinti.
Perchè non ne avrebbero
dovuto approfittare dagli USA? E così è stato: il 9 gennaio 2011
Showtime licenzia il remake americano di Shameless. La vera sorpresa
è che il remake funziona. Anzi, è anche meglio dell'originale.
Sviluppato dallo stesso Abbot col supporto di uno dei colossi della
tv statunitense John Wells (E.R.-Medici in prima linea, The West
Wing), lo show racconta della famiglia Gallagher e soprattutto dei
suoi due pilastri: il padre Frank, ebbro in quanto tale, talmente
bisognoso di alcool e affetto da farsi sodomizzare da un'agorafobica
in cambio di buon cibo, amore e spirito (in tutti i sensi), e Fiona,
la figlia maggiore, l'unica in grado ma anche costretta a tenere la
testa sulle spalle per gestire una famiglia fatta di altri quattro
fratelli, dalle differenti difficoltà di apprendimento, di
relazione, o di semplice rispetto per l'autorità parentale.
In questo marasma di urla
e chiazze di vomito, gente sdraiata sul pavimento e incapacità di
comunicare, di amori rifiutati, imposti, mai compresi eppure
onnipresenti – come i vicini e amici che trovano ogni luogo e
occasione per fare sesso, soprattutto a casa Gallagher – spunta il
fiore che rende questo remake, caso raro specie nel confronto
Usa/Gran Bretagna, migliore dell'originale: Shameless U.S., con le
sue 12 puntate rinnovate già per la seconda stagione, sa trovare il
perfetto equilibrio tra la scorrettezza sociale, lo stravolgimento
del bon ton della famiglia televisiva e il respiro di un racconto
dove al posto dei “buoni sentimenti” ci sono i sentimenti, nudi e
crudi, che non ricattano lo spettatore, ma lo coinvolgono, che
rimpiazzano il cinismo sterile della versione inglese con una
capacità narrativa e di descrizione dei personaggi meglio rodata.
E merito principale, al
fianco degli egregi sceneggiatori, va al cast, composito e
scintillante: già la sola presenza di William H.Macy illuminerebbe
qualunque prodotto, ma la definizione del suo Frank è incredibile,
trasuda squallore e amore da ogni poro, intreccia abiezione e voglia
di riscatta con una finezza e un'ironia straordinarie, ma meritano
considerazione la bella Emmy Rossum, che riscatta i bamboleggiamenti
della sua Christine nel Fantasma dell'opera di Schumacher, e
un'indimenticabile Joan Cusack, tenerissima e inquietante Sheila
Jackson, donna che ha paura nell'uscire di casa, meno nell'usare
enormi falli di gomma coi suoi uomini. Una triade che tra ripugnanza
e gioia ha saputo trovare il cuore dello spettatore.
(Pubblicato su The Cinema Show)
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